Non è un bel periodo, dentro di me e fuori di me: la stanchezza e l’incertezza incombono come macigni. Le parole confondono, se ne stanno appese nella testa con mollette di plastica a un filo che sembra non avere fine.
Giornate faticose, spesso insignificanti. Non le vorresti perché vorresti vivere, respirare, riflettere, amare, scrivere e camminare senza essere incalzata da ombre che ti ostacolano il passaggio e tolgono valore al tempo. Che manca, mi manca.
Freddo. Fa freddo. Giornate troppo fredde per queste latitudini, scruto i giorni del calendario per vedere quanto manca allo sbocciare del primo esemplare, uno qualsiasi che ti dica: l’inverno ha ceduto il passo.
Poi arriva la sera, finalmente tutto si ferma e la zavorra che ti inchioda se ne può anche andare a quel paese. Sotto il caldo di una coperta prendi dalla pila il libro che stai leggendo: lo apri alla pagina dove hai lasciato il segnalibro e, finalmente, te ne vai.
In quest’ultima settimana c’è stato lui ad aspettarmi ed è stato un compagno perfetto: un momento rotondo, magico, un incontro fortunato e benedetto.
Compa’, si chiama, perché l’autore a quest’io narrante non ha dato un nome, altro che un appellativo, compa’, come si chiamano qui in Calabria i compari, a volte gli amici. E sì, pensatelo, compari, Calabria, luoghi molto comuni, ma non è quello!
L’autore si fa beffa di voi che leggendo il titolo Alright compa’ vi fate un’idea: quell’idea. Quella sbagliata.
Lo fa lentamente, con malinconia e sagacia, snodando i fili di una storia “piccola”, di una trama sottile, smentendo qualsiasi idea preconcetta vi potreste esser fatti dal titolo, come spesso accade alle cose che accadono a noi, nati in questa terra, magari vissuti altrove.
Compa’ è stato con me in queste serate e mi ha consolato molto, moltissimo: come vederlo, seduto in un angolo ad attendermi, dinoccolato, pigro, incerto e così pieno di pensieri belli. Lui raccontava, io ascoltavo.
Con lui ho qualcosa in comune: la stessa città, Firenze, la stessa esperienza dell’afa e delle notti insonni, gli amici a Piazza Santo Spirito, a ridere, le stesse attese.
“Sudo. Soffoco. Cammino a fatica. Poi mi fermo, a cercare una macchia d’ombra. Chiudo gli occhi. Li riapro, uno alla volta, la mano curva sulla fronte. Quintali di cielo sopra di me.”
Il senso del vagare, il chiedersi a cosa si appartenga davvero, gli appartamenti condivisi, la precarietà. Il cielo uguale ovunque. La bellezza diversa. La vita com’è e come sarà quando cammini con le mani in tasca e non hai una destinazione precisa.
“Osservo e scruto ridendo le loro occhiate rapide; i piccoli movimenti delle labbra, delle dita. Ogni cinque minuti leviamo i calici in nostro onore, alla nostra felicità. Ma fossi da solo, lontano dallo sguardo di tutti, al posto di questo sorriso insano e sconcludente, avrei labbra serrrate a ghigno, a piangere con la faccia sul tavolo.”
Compa’ aspetta la sua chiamata di supplente annuale, calabrese insegnante precario a Firenze, ma se ne va: Londra, Manchester e poi chissà.
Chissà se torna.
Va a trovare un amico che ha un ristorante a Manchester, uno ormai sedimentato nella sua vita stagliata su cieli inglesi spesso cupi in compagnia del suo cane, Nero, che gli ripete: alright, tutto a posto, compa’. Tutto a posto.
Tutto a posto?
“Firenze sarebbe fantastica, se avessi la testa o fossi ancora all’università. Qui mi sento meglio, oppure no, forse non starei bene da nessuna parte, neppure a Cosenza, o a Manchester”.
Per un po’ di giorni sono andata a letto con questo romanzo, al caldo, via dalla pazza folla, a lasciarmi coccolare dalle parole giuste, sempre quelle giuste (come avrà fatto l’autore, Rino Garro, a trovarle con così tanta cura?) come se i mondi paralleli, quelli del giorno e della notte, fossero giunti a un punto tale di rottura da essere inconciliabili. Mi sono addormentata con Compa’ tra le braccia, tanto da centellinare le ultime pagine perché non volevo se ne andasse, come accade quando stai bene in compagnia di qualcuno che sta per partire.
Andarsene. Qui o altrove.
La cosa che mi è venuta in mente, sorridendo al pensiero, è che Compa’ è quel Massimo Troisi di Ricomincio da tre, quello al quale Mirabella dà un passaggio mentre fa l’autostop:
Venite da lontano?
Da Napoli
Emigrante?
Nnno, io c’avevo pure un lavoro a Napoli, una cosa normale, come tutti quanti… no, so’ partito così, pe’ viaggià, per conoscere un poco…
Conoscere.
Ecco, io ringrazio Rino Garro per il tempo che mi ha regalato, come grata sarò in eterno a Massimo Troisi.