Sarebbe riduttivo definire, con una formula un po’ abusata, “Alright compa’” di Rino Garro il racconto di un giovane insegnante precario “in fuga da se stesso.” È piuttosto il racconto di un viaggio di ritorno, o a ritroso, che ha una sua laica sacralità. Esso infatti si compie nel tempo e la meta è il suo senso. Il protagonista, passando attraverso il deserto ostile dei suoi pensieri e la minaccia mortale di una alterità assoluta e irriducibile (da cui la noia e il ricorrente senso di nausea e bruciore di stomaco) decide di tornare a Manchester dall’amico Mario.
Costui, calabrese come il protagonista, è il proprietario di un ristorante presso cui in passato ha lavorato come lavapiatti per pagarsi gli studi. Tornato a Manchester la storia prosegue tra ricordi, allegre bevute, amori e nuove amicizie che preludono a un possibile, ma per nulla scontato inizio di una nuova vita, quasi una palingenesi, fino all’inatteso – davvero straordinario per lirismo e intensità emotiva – finale.
Quanto alla scrittura, nella sobria e leggera tessitura del racconto di Garro i personaggi sono presentati in maniera vivida e realistica, attraverso segni ed emblemi del loro carattere, parole ripetute come un mantra (come quelle che danno il titolo al racconto), silenzi gravidi di dolore e riserbo, ma pure dettagli del vestiario (“il nero dei suoi vestiti concede fili di elegante fierezza”) e tratti somatici colti con perspicacia.
Di più: con la sua riduzione a un gesto fisico della più immateriale delle attività umane, il pensiero, la scrittura di Garro diventa capace di restituire la concretezza di figure, quadri di vita e dialoghi abbozzati che restano impressi, vorrei dire appiccicati a lungo nella memoria del lettore, perché hanno l’evidenza e la forza delle cose reali. Sfuggenti ma vere. Come il viaggio del protagonista. Come la vita.