La riflessione storica sul socialismo italiano è stata sempre scarsa e inadeguata. Con poche eccezioni, lo si è considerato un tema da affidare alla pamphlettistica, a controversie personali, anche tra dirigenti, ad esaurirlo in una storiografia regionale o umbratile. Il risultato è stato di degradare la ricerca del fallimento del riformismo nel nostro Paese nelle resistenze della Dc e nel velleitarismo della “terza via” del Pci. L’autonomia (e quindi la costruzione dell’identità) socialista ha coinciso con la formazione dei governi di centro-sinistra. Precedentemente c’era stato un atto unico nella storia del socialismo europeo: nell’ottobre del 1919, al congresso di Bologna, il Psi aderì all’Internazionale comunista e si fece diffusore del leninismo. Nell’emblema grafico introduce la falce, il martello e il libro. Come ha notato Marco Damilano questa simbologia se la porta dietro fino al Midas, cioè alla nomina a segretario di Bettino Craxi. La partecipazione ai governi di centro-sinistra è stato prevalentemente un fenomeno di natura sacrificale per il Psi. Non ci sono state rendite. Infatti, le scorte elettorali del consenso hanno cominciato a declinare dal 1958. Il che significa immediatamente dopo la rottura del cordone ombelicale che l’aveva legato ai comunisti. Direi che è stato il prolungamento della cultura antifascista e la rinuncia a non sciogliere i nodi di ambiguità ad essa sottesa a rendere l’alleanza tra Nenni e Togliatti un processo in cui la sudditanza del Psi ha avuto una durata eccessiva. Non si è trattato solo di un valore temporale (dalla seconda metà degli anni Trenta alla fine degli anni Cinquanta del XX secolo). Mettendo la sordina sulla democrazia autoritaria, anzi il vero e proprio dispotismo dei regimi comunisti che la bandiera dell’antifascismo ha coperto, le ragioni dell’identità socialista si sono perse insieme a quelle dell’autonomia. E non era possibile che a recuperare questi valori fossero i dirigenti che si erano spesi nell’unità d’azione con i comunisti. A cominciare da Nenni, la sua immagine e la sua cultura è stata impeccabilmente quella del frontismo e si è esaurita nell’antifascismo. Col socialismo europeo, che era anticomunista (e non poteva essere diversamente), il leader del Psi ha avuto assai poco a che fare. Aveva coniato la frase, che fu quasi sempre la sua linea di condotta: “pas d’ennemi a gauche”. Il legame privilegiato con i comunisti era iscritto in questa politica ch’era, anzitutto, un modulo culturale. Quando Nenni si è spostato su un altro terreno, quello delle riforme (con le intese con la Dc) non è apparso credibile.
Protagonista ne fu, infatti, Riccardo Lombardi che con i comunisti non ebbe mai complessi di colpa e tantomeno di inferiorità. L’inaffidabilità di Nenni (e dei socialisti di sinistra, che alimenteranno la scissione del Psiup, un partito mantenuto con i rubli sovietici) come riformatore fu testimoniata dal fatto che il Psi dal 1958 alle elezioni del 1972 si svenò. Dal 14 per cento dei voti precipitò al 9 per cento. E da questo livello neanche il cambiamento radicale determinato dalla leadership di Bettino Craxi riuscirà a schiodarlo. Nel volume di Rino Formica, “Prima Repubblica, una storia di frontiere”, a cura di Emanuele Ceglie, appena edito da Rubbettino, Marco Gervasoni parla di una quadruplice crisi che a metà degli anni Settanta avrebbe colpito il Psi: di identità, di leadership, di tattica e di strategia. Formica non deve aspettare il 1956 (la tragedia dell’Ungheria invasa dall’Armata rossa), perché capisce fin dal 1943 il virus differito che avrebbe avuto la coperta dell’antifascismo che il Psi accettò di stendere sul totalitarismo comunista. È stato sempre molto facile, e molto semplice, attribuire il debole riformismo dei governi di centro-sinistra alla forza del blocco conservatore identificato nella Dc. In realtà, nel partito cattolico era rappresentato l’intero sistema politico e sociale italiano. C’era quanto il Paese, la sua società civile aveva saputo offrire. Non si può criminalizzarlo riducendolo a blocco conservatore, perché non è vero. Si trattava dai avere una politica adeguata (cioè un’arma) per forzare questa varietà di opinioni coesistenti in una sola organizzazione (la Dc, appunto), e piegarla a un disegno di grande modernizzazione. Simile o non diverso da quanto erano riusciti a fare i laburisti inglesi, i socialdemocratici te deschi e i socialisti francesi che molto moderi ed europeisti non sono stati), per non parlare del modello di Welfare State delle socialdemocrazie scandinave. Non era un’impresa facile. Nel Psi l’opzione per il liberalsocialismo è stata una scelta di gruppi intellettuali. I Giuliano Amato, Luciano Cafagna, Giorgio Ruffolo, Federico Mancini, Gino Giugni, alcune riviste milanesi, gran parte dei collaboratori di “Mondo operaio”, sono stati i protagonisti di una rinnovamento culturale che ha preso le distanze da quanto veniva imbandito dai diversi forni del comunismo. Direi, però che il grande corpo dei socialisti è sempre vissuto a ridosso dei comunisti. Ha finito per esercitare più una funzione di controllo degli equilibri (soprattutto, spartitori: nelle amministrazioni e negli enti gestiti insieme) che di innovazione e di autonomia. Se guardo all’Emilia Romagna, dove la tradizione socialista prefascista ha avuto il maggiore sviluppo e radicamento, si può parlare di una sconfitta epocale del socialismo. I comunisti si sono riusciti a insediare (non solo nei Comuni, nelle province e nelle regioni, ma anche nella rete delle cooperative e del lavoro associato) a Reggio Emilia come a Bologna, a Modena come a Imola o Ravenna dove ha avuto luogo un effetto straordinario di sostituzione. Elettori e cittadini, con una longeva gratitudine elettorale, hanno riconosciuto i comunisti come i loro liberatori dal fascismo. Il Psi dopo il 25 aprile 1945 è stato vissuto come un caro estinto, una ruota di scorta, un semplice compagno di strada del Pci.
Turati non era mai esistito. Dunque, il passato, in cui il Psi aveva guidato e retto le lotte tremende contro gli agrari, il costo della vita, per i servizi, l’assistenza, la distribuzione dei redditi, e per la pace è stato omesso e cancellato come se si trattasse del cambio di una camicia sporca o lisa. Dov’era nato e si era fortemente insediato, il riformismo socialista non c’è più stato se non come una modesta forza di minoranza. Lo spettro del passato. E sul piano nazionale, l’immagine che è sortita dal centro-sinistra è stata di una politica che non era inserita in un disegno generale. Malgrado gli sforzi di Craxi, è mancata per stare a mediare e comprendere gli inutili sforzi di Berlinguer di coniare un’impossibile “diversità” una politica di alleanze con i socialisti europei. Solo uno spietato, orgoglioso anticomunismo, la fine dell’ipocrisia antifascista avrebbe potuto evitare di omologarsi a programmi, interventi, culture che erano iscritti come segmenti o aspetti della tradizione comunista. Si sono pungolate, ma non aiutate le imprese perché l’anticapitalismo è stata una pianta fortemente radicata anche nel Psi. È mancata un grande politica dei redditi sostenuta da una robusta politica fiscale e un massiccio investimento nell’istruzione (a cominciare da quelle professionale). Contro la povertà non c’è stata una battaglia campale neanche minimamente assimilabile a quella (purtroppo ingaglioffita da un surplus di retorica e di propaganda) sul reddito di cittadinanza imposta dai sovranisti di Grillo e Di Maio. La riflessione di Rino Formica è tardiva, ma importante perché è quella di un dirigente che con i comunisti non ha avuto né obblighi né compiacenze, e ha fatto l’esperienza del partito di Saragat. Dovrebbero imitarlo gli altri dirigenti socia listi (emiliani e lombardi) offrendo agli storici e in generale all’opinione pubblica dei rendiconti analitici della loro attività. Significativo è, per esempio, quel che ha fatto un comunista come Luciano Barca. Le sue “Cronache dall’interno del vertice del Pci” sono un utilissimo apporto conoscitivo, che opportunamente Rubbettino ha ospitato, in tre volumi, nel suo ricco catalogo. Lo stesso vale per i diari tematici del principale ispiratore (e non solo segretario) di Enrico Berlinguer, il rodaniano (o catto-comunista che dir si voglia) Antonio Tatò (“Caro Berlinguer. Note e appunti riservati 1969-1984”, Einaudi, Torino, a cura di Francesco Barbagallo). La lettura consente di capire come il legame con l’Unione sovietica fosse davvero di ferro, malgrado i dissensi. Non solo a Togliatti, ma anche a Berlinguer, Rodano e Tatò hanno insegnato, purtroppo con successo, una certezza irrevocabile. Risiede nel fatto che il principale avversario dei comunisti non solo nel 1921, ma fino allo sfarinamento del bolscevismo negli anni Settanta, era implacabilmente la socialdemocrazia. Col Psi di Craxi, Lombardi e Formica poteva esserci qualche sosta per assicurare la governabilità, ma nessun accordo era possibile. Il volume è arricchito da un saggio di Marco Gervasoni e da un’intervista con lo stesso Formica di Marco Damilano. Davvero vale la pena di leggerle perché sono campane a stormo contro la banalità.
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