Da Il Giornale del 24 febbraio
Quando un editore decide di investire nella ripubblicazione di un libro significa che qualcosa è cambiato. A sei anni di distanza dalla prima edizione, Rubbettino riedita Zefira (pagg. 194, euro 14), terzo romanzo di Gioacchino Criaco dopo Amenican taste e Anime nere (sempre Rubbettino). Classe 1965, figlio di pastori, originario di Africo, Aspromonte (il padre Domenico assassinato in una faida nel 1993, il fratello Pietro uno dei 30 latitanti più pericolosi d’Italia in carcere in regime di 41 bis), trasferitosi a Milano per fare l’avvocato, avevamo lasciato Criaco pochi mesi fa sul red carpet della Mostra di Venezia, dove, nel ruolo di co-sceneggiatore, aveva presentato col regista Francesco Munzi il film tratto da Anime nere. Un pugno nello stomaco che parlava della sua terra, di come i ragazzi diventano manovalanza degli ‘ndranghetisti, di come viva chi, rimanendo in Calabria, rifiuta di piegarsi alla violenza. Senza rivelazioni shock, senza scorte. Zefira è una storia molto diversa, in cui Criaco alza il tiro: dalla criminalità alle istituzioni, dalle responsabilità dirette alle cause remote.
Zefira torna: cos’è cambiato?
«Zefira torna proprio perché nulla è cambiato. Il libro sembra scritto adesso. Il problema della Calabria è che nulla di sostanziale cambia. C’è un dinamismo eccezionale, sempre in crescita, ma riguarda migliaia di individui. Individui che rimangono individui: viaggiano in ordine sparso, ma non riescono fare una rete. La Calabria è viva, ma sotto una coltre di polvere. La polvere è quella della classe dirigente, che invece non intende cambiare le cose».
I calabresi sono ostaggio del potere o di una mentalità?
«L’Italia è una nazione giovane e il potere locale è ancora potere. La particolarità del potere locale calabrese è che la classe dirigente fa quello che anche altrove fa: governare e prendersi privilegi. Ma qui per farlo si serve della criminalità in senso classico. Si tende a pensare che il problema sia la ‘ndrangheta. Ma il gruppo di potere sopra di lei è storicamente molto più pericoloso della’ndrangheta. Il governo centrale è sempre stato fragile e anziché governare le nostre terre preferisce affidarsi alla mediazione di chi c’era già».
È questo il tema di Zefira: nulla è come sembra. Forse un personaggio, il commissario milanese Luca Rustici, venendo da fuori potrebbe cambiare le cose?
«Non arriverà mai la cavalleria: mi serviva il personaggio esterno perché spesso noi calabresi ci chiudiamo nei nostri ragionamenti levantini. Rustici, figlio di un generale della Guardia di Finanza, con una situazione sentimentale fallimentare, ha un quotidiano noioso e arriva in Calabria in cerca di stimoli. Crede di trovarla dominata dalla mafia e si trova immerso in una palude in cui non succede nulla. Ma è solo quando s’innamora e sceglie di stare a Zefira, che realizza che nulla è come sembra».
Qual è il potere della letteratura?
«Rompere gli schemi. Sono stato molto criticato per Anime nere. Perché secondo una certa intellighenzia calabrese davo un’immagine negativa della regione. Io penso di aver mostrato ai nostri ragazzi tragedie, tradimenti e rimpianto per vita sprecata, facendo da contraltare a una letteratura e a una informazione che venivano da fuori e che hanno creato, anche per ingenuità, il mito del malavitoso onnipotente che è più forte anche dello Stato. La letteratura ti deve dare un cazzotto in faccia, se no è intrattenimento».
I suoi libri chi hanno colpito in faccia?
«Sono stati visti male dall’élite che ha voluto ostacolare me e Munzi dall’inizio. I calabresi invece, anche nelle zone più ghettizzate sono stati autisti, elettricisti, cuochi dietro la macchina da presa e anche attori. Hanno dimostrato che se le persone hanno opportunità, anche nella Locride diventano normali».
Sente di rischiare?
«Mai con la gente normale. E forse nemmeno mai tanto con Animenere. Ma con Zefira ho sentito un’ostilità muta, una cappa. Perché si occupa di quello che sta sopra la ‘ndrangheta e si può averne paura. Zefira era una cosa che doveva essere dimenticata, la prima pubblicazione è stata in qualche modo oscurata».
E Rubbettino ci riprova.
«Un coraggioso. Ma anche stavolta quella cappa tornerà fuori. Perché il libro è un’avvertenza. Non ai calabresi, ma a chi in buona fede abbocca alla rappresentazione della Calabria data da certi calabresi. Falsità che presentano come eroe chi eroe non è».
Come li si smaschera?
«Con un nostro proverbio storico: bisogna guardare i fatti e vedere a chi giovano».
di Stefania Vitulli
clicca qui per acquistare il volume con il 15% di sconto
Altre Rassegne
- Il Mattino 2015.03.23
Criaco, delitto eccellente nella Calabria dei potentati
di Federica Di Bianco - Il Giornale 2015.02.24
«All’ombra della ‘ndrangheta c’è il vero problema della Calabria»
di Stefania Vitulli