Recensione a: Quaderni Degasperiani per la storia dell’Italia contemporanea, a cura di P.L. Ballini, vol. 7, Fondazione De Gasperi – Rubbettino, Soveria Mannelli 2019; W. Röpke, La crisi sociale del nostro tempo, a cura di F. Felice, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019; Id., Civitas Humana. I problemi fondamentali di una riforma sociale ed economica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016; Id., Al di là dell’offerta e della domanda. Verso un’economia umana, a cura di D. Antiseri e F. Felice, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013.
Wilhelm Röpke, questo sconosciuto. L’incipit della nostra rassegna è solo parzialmente provocatorio, perché in effetti, se restiamo al contesto nazionale, tra gli addetti ai lavori il nome dell’economista svizzero, tedesco di nascita, è sì noto ma non davvero conosciuto, studiato e restituito alla storia dell’Italia contemporanea per quel che effettivamente fu, ossia un pensatore alquanto influente sulle vicende politiche della penisola. Non parliamo poi, ovviamente, di un pubblico più largo, anche se colto e appassionato di storia politica ed economica del Novecento. Il suo nome è totalmente ignoto ai più. C’è un motivo politico-culturale di stringente attualità, oltre ad un interesse squisitamente storiografico e filosofico, a rendere doveroso un recupero della figura di Röpke. Un motivo che ha direttamente a che fare sia con le origini della nostra storia repubblicana sia con le prospettive di rilancio del processo di costruzione europea, attualmente in panne.
Il settimo volume dei Quaderni Degasperiani, importante iniziativa editoriale della Fondazione De Gasperi, ha pertanto provveduto a colmare una lacuna, nonché a ribadire l’attenzione che il grande statista trentino rivolse al pensiero di Röpke e al suo bagaglio di idee. Grazie a questo volume, che si aggiunge all’attività che da oltre un decennio conduce Flavio Felice, supportato da due maestri come Dario Antiseri e Francesco Forte, possiamo dire di essere finalmente giunti ad avere a disposizione ampio materiale per un’adeguata conoscenza e un documentato bilancio critico della figura di Röpke e dell’impatto avuto sulla politica e la cultura economica italiana del secondo Novecento.
In questa sede tentiamo dunque di stilare un sintetico resoconto sulla ricezione italiana dell’opera ropkiana, anche alla luce della pubblicazione, sempre per merito dell’editore Rubbettino, di suoi tre scritti, probabilmente i più importanti e significativi: La crisi sociale del nostro tempo, uscito originariamente nel 1942, Civitas Humana. I problemi fondamentali di una riforma sociale ed economica, libro del 1944, e Al di là dell’offerta e della domanda. Verso un’economia umana, considerato il suo testamento spirituale, uscito nel 1958 (Röpke, nato nell’ottobre del 1899, sarebbe scomparso prematuramente nel febbraio del 1966).
Partiamo anzitutto da un’esposizione, sia pur molto sintetica, del suo pensiero. La prospettiva di Röpke non è neutrale rispetto all’etica e ai fini della società. Già nella sua nota introduttiva al settimo volume dei Quaderni Degasperiani, il curatore Pier Luigi Ballini ricorda una celebre massima ropkiana: «l’etica senza economia è vuota, l’economia senza etica è cieca»[1]. Lo ribadisce Antiseri sin dal titolo scelto per il suo intervento. Non ci troviamo dunque di fronte ad un relativista, così come accade con molti economisti, di ieri e di oggi, secondo i quali non esistono fini superiori, essendo tutti opinabili. Esistono piuttosto, per Röpke, costanti antropologiche, ossia dati di fatto nella natura psicofisica dell’uomo, che è fatto così e non altrimenti. Dunque, oggettività vs soggettività. Un’oggettività creaturale, beninteso, non certo materialistica.
Per l’economista svizzero-tedesco è pertanto affermabile la presenza e persistenza di un minimo di assoluto invece che di un massimo di relativo. Vi sono giudizi di valore che, nella misura in cui contano, e spesso contano tantissimo, per quella data persona, costituiscono dei dati di fatto, di cui l’economista non può non tener conto nell’analisi dei comportamenti inerenti la produzione, lo scambio, il consumo di beni e l’uso di servizi.
La proprietà, l’altro sesso, il lavoro, l’ozio, il tempo, la morte, la giovinezza, il passato, l’avvenire, le gioie della vita, le cose sacre ed ultraterrene, il bello, il vero, la giustizia, la ragione e il sentimento, la comunità, la guerra, la pace: tutti questi ed altri rapporti vitali contribuiscono a fare dell’individuo una persona. La loro perdita o mancanza depriva invece l’individuo e favorisce depressione nel singolo e aggressività nella società, che finisce così per essere composta da un numero eccessivo di individui di tal fatta, ossia non più persone in senso stretto. L’anarchia e una conflittualità insanabile, lacerante, diventano conseguenze ineludibili. Nessuna economia può realizzarsi, tanto meno quella di libero mercato, poiché concorrenza e competizione non fanno certamente rima con ostilità ed accaparramento.
Questo sostiene Röpke, mettendo a fuoco i presupposti antropologici della sua economia sociale di mercato. Una terza via, come egli ebbe a definirla, tra il liberismo capitalistico storico e le tendenze dirigiste o collettiviste, un modello che parte dall’assunto per cui senza quei valori appena ricordati il mercato non può funzionare adeguatamente. Si tratta di quel che Röpke chiama una solida cornice antropologica e sociologica, che sola può controbilanciare il principio individualistico dell’economia di mercato concorrenziale affidata al mero laissez-faire.
Un liberalismo delle regole è dunque quello propugnato da Röpke e che si avvale degli elementi extra-economici sopra ricordati, vera e propria base portante dell’economia. Inoltre, per l’economista svizzero-tedesco, specie nel contesto del dopoguerra, appresa davvero la lezione del secondo conflitto mondiale, con le sue cause, tra cui, decisiva, l’emersione della tremenda novità totalitaria, era fondamentale evitare i pericoli mortali della riduzione a massa del proletariato. Di qui una politica anti-monopolistica, per cui si spiegano i termini entro i quali avrebbe potuto essere non solo ammessa, ma anche invocata, una politica liberale di intervenzionismo, da intendersi non come pianificazione e programmazione diretta dallo Stato, ma sotto forma di interventi di adeguamento, ossia di una politica sociale conforme al mercato di concorrenza.
Infine Röpke dichiarava in tutti quei suoi scritti, ora disponibili anche per il lettore italiano, che la democrazia liberale è e non può che essere la società borghese. Conscio di quanto screditato fosse questo aggettivo, l’economista svizzero-tedesco comprese chiaramente e immediatamente, una volta sconfitte la terribile minaccia nazista e il suo alleato fascista, quanto lo spirito antiborghese ed anticapitalistico continuasse ad albergare nel comunismo sovietico.
Dietro l’avversione alla borghesia si celava un odio profondissimo rivolto contro la civiltà occidentale, nella quale popoli europei ed americani potevano ritrovarsi affratellati, data la comune radice cristiana. L’etica borghese a cui Röpke pensava era la sintesi di tale civiltà, e se nazismo e fascismo erano state infezioni che l’avevano corrotta e pervertita, il rimedio non risiedeva nell’abbracciare la proposta messianica e palingenetica bolscevica, appartenente allo stesso ceppo virale delle ideologie di cui si erano avvalsi Hitler e Mussolini.
È dunque in nome dell’antitotalitarismo che Röpke ripensa il liberalismo, come possiamo facilmente ricavare dalla lettura dei suoi articoli tradotti e pubblicati su alcune riviste italiane di area liberale tra l’aprile del 1948 e l’agosto del 1953, sette testi ora raccolti da Pier Luigi Ballini e riproposti in appendice a questo settimo volume dei Quaderni Degasperiani. Numerosi sono poi i contributi critici ivi contenuti. Per un approfondimento del pensiero ropkiano meritano particolare attenzione i saggi di Dario Antiseri, Flavio Felice e Federico Mazzei. Soprattutto dalla lettura di quest’ultimo comprendiamo che l’influenza dell’economista svizzero-tedesco su De Gasperi fu per lo più indiretta, passando per il tramite degli ambienti liberali, interni o meno al Pli dell’epoca.
Importanti in tal senso numerose personalità, molto diverse tra loro, come Leone Cattani, Carlo Antoni, Mario Ferrara, Panfilo Gentile e Mario Pannunzio, per citarne solo alcuni. Ma, sempre per quanto riguarda l’introduzione e diffusione di un liberalismo di nuovo conio, aggiornato ma non snaturato, fu centrale senz’altro il ruolo svolto da Luigi Einaudi, anche per il fatto che in quel frangente decisivo la sua figura seppe abbinare e sintetizzare lo studioso, conscio dei limiti storici che avevano condotto il liberalismo al fallimento di fronte alle dittature totalitarie e alla crisi del 1929, con il governante, segnatamente in qualità di vicepresidente del Consiglio dei ministri, con il portafoglio del Bilancio, tra il giugno del 1947 e il maggio dell’anno successivo (ovvero nel IV governo De Gasperi), nonché governatore della Banca d’Italia già dal 5 gennaio del 1945. Il 12 maggio del 1948, com’è noto, sarebbe poi stato eletto alla massima carica dello Stato, diventando il primo presidente della Repubblica italiana dopo l’approvazione ed entrata in vigore della nuova Costituzione. La sua effettiva incidenza sulla vita pubblica nazionale si esaurirà all’indomani della fine del mandato presidenziale, nel maggio del 1955, esattamente nove mesi dopo la scomparsa di De Gasperi. Un ciclo politico e culturale si chiude, non solo per il mondo liberale e cattolico.
Non dimentichiamo poi, come opportunamente evidenziato da Mazzei nel suo ponderoso saggio, che lo stesso Röpke «non fece mancare il proprio impegno pubblico di intellettuale nella campagna elettorale del 1948»[2], tenendo conferenze in alcune città italiane e favorendo la traduzione di alcuni suoi scritti e relazioni, nelle quali sottolineava l’altissima posta in gioco di cui le lezioni del 18 aprile costituivano un momento oltremodo importante. Scriveva ad esempio in un articolo significativamente intitolato Tra Russia e America e pubblicato il 15 febbraio di quell’anno sul quindicinale della Camera di Commercio, Industria e Agricoltura di Torino: «La civiltà occidentale è patrimonio comune degli europei e degli americani, e i suoi valori e ideali si fondano sui concetti di libertà, diritto e personalità, così come essi sono stati intesi dai filosofi dell’antichità e dal cristianesimo. Non si tratta quindi di vedere ciò che ci separa dagli Stati Uniti, ma di conservare ciò che invece abbiamo in comune con essi. Questo patrimonio comune è ciò che più importa: è la civiltà dell’Occidente»[3]. Siamo esattamente dentro i termini della questione, tanto ideologica quanto pratico-politica, posta da De Gasperi a partire dalla primavera del 1947 e almeno fino alla campagna elettorale del 18 aprile dell’anno dopo. Si legga a tal proposito l’intervista rilasciata al quotidiano romano “Il Messaggero” esattamente il giorno prima di quelle fatidiche elezioni. Anche questo testo è opportunamente riportato in appendice al Quaderno Degasperiano[4]. In alcune risposte è evidente l’eco di un’impostazione politico-economica sensibile al neoliberalismo, tanto einaudiano quanto ropkiano. Potremmo definirlo un “personalismo liberale”.
Condividiamo nella sostanza la valutazione espressa da Flavio Felice in uno dei suoi due interessanti contributi a questo Quaderno, secondo cui è possibile «affermare che l’azione politica di De Gasperi sia stata in gran parte ispirata dal liberalismo popolare di Einaudi e di Sturzo, i quali condivisero pienamente la prospettiva teorica di Wilhelm Röpke»[5]. Altrettanto condivisibile la successiva precisazione che la terza via proposta dall’economista svizzero-tedesco «non è esattamente la traduzione italiana dell’economia sociale di mercato tedesca, ma che ne condivide l’ispirazione cristiana, l’antiperfettismo sociale e l’impostazione antidogmatica di “terza via”»[6]. Una linea politico-economica più coerentemente ropkiana sarebbe stata perseguita da Ludwig Erhard, ministro dell’economia della Repubblica Federale Tedesca per quattordici anni consecutivi, dal 1949 al 1963. Già dal 1950 Röpke sarebbe stato uno dei suoi più fidati ed ascoltati consiglieri, contribuendo al miracolo economico tedesco del secondo dopoguerra. L’espressione “economia sociale di mercato” (Sozialemarkt Wirtschaft) è stata per la prima volta impiegata intorno al 1946 dall’economista Alfred Müller-Armack (1901-1978), il quale «ha sempre considerato l’implementazione del liberalismo politico con l’umanesimo cristiano un compito di rilevanza sociale, al quale la scienza economica avrebbe dovuto dare un contributo decisivo»[7].
Da altri contributi, come quelli firmati da Michele Bagella (De Gasperi e la politica economica) e da Alberto Cova (Che fare? Considerazioni sulle «Teorie dei programmi pratici di sviluppo» in Italia negli anni 1945-1959), si evince chiaramente, dati alla mano, la diretta influenza di un meditato ed energico cattolicesimo liberale (o personalismo liberale) su una stagione tanto intensa e decisiva quanto breve e ben presto accantonata in direzione di tendenze meno favorevoli al mercato di concorrenza e più orientate al dirigismo prima, all’assistenzialismo poi. Fu stagione breve e rapidamente dimenticata in Italia, beninteso, già declinante dopo il 1954 (in corrispondenza, guarda caso, della morte di De Gasperi), perché in Europa, come ben illustrato nel saggio di Flavio Felice e Luca Sandonà (Cattolicesimo liberale italiano ed economia sociale di mercato tedesca: una convergenza internazionale dietro il Trattato di Roma del 1957), l’influenza fu assai più longeva, seppur oggi pare anche lì da troppo tempo obliata a favore di una strategia su scala continentale che di economia sociale di mercato e di “terza via” ha solo il nome, evocato in qualche trattato o documento ufficiale.
Non vi è più la sua anima motrice, che risulta espiantata, o meglio ricollocata e praticata soltanto a livello di alcuni singoli Stati membri dell’Ue, Germania in testa, la quale, non a caso, risulta l’unica veramente solida potenza economica dell’Unione. Oggi più che mai si fa sentire la mancanza di figure come De Gasperi e Adenauer alla guida dell’Europa. All’assenza di leadership politica si aggiunge un deficit di visione strategica, di pensiero davvero capace di configurare uno spazio pubblico europeo dotato di una precisa identità, culturalmente plurale ma unita a livello decisionale su pochi ma decisivi punti chiave (dalla difesa comune alla politica migratoria, dalle crisi internazionali alla concorrenza commerciale asiatica, ecc.; ad oggi resta legittimo dubitare che l’emergenza pandemica possa davvero mutare lo scenario). Ciò detto, rileggere autori come Röpke, ma anche Einaudi e Sturzo, potrebbe essere un buon punto di partenza per allevare future generazioni di leader europei.
NOTE
[1] P.L. Ballini, Nota introduttiva. Röpke, l’economia sociale di mercato. De Gasperi, costruzione della democrazia e ricostruzione del Paese. Il coraggio delle scelte, in Quaderni Degasperiani per la storia dell’Italia contemporanea, a cura di P.L. Ballini, vol. 7, Soveria Mannelli, Rubbettino – Fondazione De Gasperi, 2019, p. 11.
[2] F. Mazzei, La «terza via» di Wilhelm Röpke alle origini dell’Italia degasperiana, 1942-1948, ivi, p. 167.
[3] Cit. ivi, p. 168.
[4] 17 aprile 1948. Un’intervista dimenticata di De Gasperi, a cura di F. Mazzei, ivi, pp. 251-254.
[5] F. Felice, Etica cristiana, stato di diritto ed economia di mercato: De Gasperi lettore di Wilhelm Röpke, ivi, p. 42.
[6] Ibidem.
[7] F. Felice, Prefazione a Il liberalismo delle regole. Genesi ed eredità dell’economia sociale di mercato, a cura di F. Forte e F. Felice, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, p. 15.