da Arte e Critica del 30 gennaio
Quella che Paolo Aita avanza in Accanto al meno. Un’ipotesi nell’arte contemporanea (Rubbettino, 2013, pp. 148) è un’analisi estetica e artistica che dalla teoria sfocia nella contingenza delle opere e degli autori – mai classificabili in maniera “categorica” – in un ritmo assiduo di rimandi bidirezionali. La rappresentazione dell’invisibile, l’orizzonte dell’assenza, gli spazi del non-detto e, con loro, tutto quel vocabolario che fa riferimento alla sottraenza disegnano un’immagine di arte che riflette su se stessa, e che ripensa all’estetica in termini del tutto non canonici. L’autore descrive lo statuto di un’opera ibrida, sganciata da ogni personalismo e fardello esistenziale improprio, mutevole e sperimentale, non data a celebrare la forma e la ricerca della bellezza, come da tradizione. In linea con quest’atteggiamento, le fonti sono le più disparate: tra gli altri Cézanne, Merleau-Ponty, Osvaldo Licini, gli architetti, Adolf Loos e Mies van der Rohe, i poeti e gli scrittori, Giuseppe Ungaretti e Franz Kafka, i musicisti. Un percorso che fa capo a una dimensione della visività al limite del veduto, del visibile e dell’invisibile, e a una dialettica della traccia e del frammento, del mistero e dell’enigma, che procede anacronisticamente tra i tempi, fino a un presente in cui “c’è spazio per le lacrime”, e per un dialogo reale che eviti teorizzazioni sterili e costrittive. In uno scenario in cui molto sta cambiando, Aita attinge a discipline e campi del sapere differenti, affermando la possibilità di ripensare una nuova “essenzialità del vivere”, interpretando il lavoro artistico come tassello di un sistema di comunicazone ampio che ancora richiede all’estetica la possibilità di essere elaborato insieme ai saperi altri che popolano e vivificano il nostro tempo.
di MC
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