Presentare Ogni parola, un essere (Rubbettino, Soveria Mannelli 2018) è come presentare l’opera omnia di Márcia Theóphilo, perché ogni singolo lavoro entra a far parte degli scritti precedenti, li assorbe, ne viene assorbito, un filo sottile li lega l’uno all’altro. Sempre diversi, eppure sempre uguali.
Quante scritture sono così intensamente speculari ai paesaggi da cui sorgono come quelle latinoamericane del nostro secolo? Non è certo una pura metafora affermare che la ricchezza di queste scritture è la stessa della giungla tropicale: ricchezza paradossale e barocca, sontuosa e malata, fatta di tinte assurde e di un’immensa putrefazione, di insostenibili dolcezze e di agguati mortali. Piuttosto è l’insieme delle metafore, e di tutte le figure del linguaggio, a esser messa senza tregua in gioco dall’incandescenza, dalla voracità di una simile fornace creativa.
Su questo sfondo la poetessa brasiliana Márcia Theóphilo sa ritagliarsi degli spazi fortemente personali, nutriti non solo da un’insaziabile passione per i miti delle etnie amazzoniche ma, insieme, da una nitidezza singolarissima di visione.
In Tristi tropici, scrive Lévi-Strauss che la foresta brasiliana ha, rispetto alle nostre, un grado superiore di ‘presenza’: «come nei paesaggi esotici di Henri Rousseau, le sue creature raggiungono la dignità di oggetti». Anche i versi della Theóphilo sanno restituirci il sortilegio struggente e inquietante dell’Amazzonia con tocchi plastici e netti, non per un desiderio di riportare la complessità infinita degli esseri, delle cose e dei gesti agli stilemi rassicuranti dell’esotico, ma per il bisogno di testimoniare tutto ciò che, nonostante questa complessità, sa sottrarsi al rischio dell’informe e del caos, sa disegnare, dall’interno stesso della grande Metamorfosi, figure arcane di bellezza e splendore.
Tutto il mondo poetico della Theóphilo è fondato su un sentimento vivissimo, non simbolista ma primordiale, delle corrispondenze tra i fenomeni e il cuore pulsante dell’uomo: «quando si agita una canzone /si muovono le acque del fiume»; «Quando la mente si oscura /perde colore anche il suono». Come un secondo cuore più segreto, spesso tamburi battono tra le pieghe di questi versi increspandoli nelle cadenze di un messaggio dall’ignoto, dal fondo enorme, scivoloso del tempo. Oppure flauti tracciano nel vento fili sottili di colore, o è il vento stesso che raccoglie le tracce dei colori e le scioglie, le porta a farsi ritmi, o sospiri, o sensi. In questa tramatura di analogie e di riflessi nessun valore è riservato al sentimento dell’ego: nessuna presunzione di autonomia, di distanza della mente dalle cose ha più diritto di cittadinanza qui, dove «s’intrecciano serpenti e pensieri», dove la bellezza si schiude e si offre in «un riso di frutta», in «un corpo di brezza», in «capelli di fili di fumo». Grappoli iridescenti d’immagini s’inseguono nello spazio della visione come onde elastiche, come cascate di doni magici o divini: «Cavalli, nidi, uccelli, farfalle, /legni, monti, rami, sfere, fiumi, ruscelli». Mai il dominio vaporoso del possibile aveva raggiunto tanta forza tattile: la densità dei frutti più succosi, la fragranza delle polpe più ricolme di luci.
Ma non è certo un eden ritrovato che l’opera della Theóphilo, nel suo insieme, dispiega. Minacce, cavità d’ombra, gorghi sabbiosi attraversano l’anima della foresta sospendendola al rintocco di un’inquietudine fatale, alla necessità di un brivido profondo, immenso. Nel volto stesso del divino, che in mille modi si vela e si svela, come non scorgere i lineamenti ambigui dell’‘altro’’ da ogni nome, da ogni culto, del regno delle larve, dei fantasmi, dei demoni? Ogni immagine ha in sé, dunque, una forza doppia, liberatoria e vischiosa: ogni suono è danza, onda, bagliore, e insieme eco ipnotica o medusèa, come la voce di Yara, la divinità delle acque il cui «canto che non finisce» trascina gli incauti negli abissi.
Ma una voce ancor più terribile è quella che, a un certo punto, giunge a scuotere la foresta nelle sue fondamenta, a scardinarne le leggi e le ragioni: la voce della Storia che avanza, tutto distruggendo al suo passaggio con un frastuono di seghe e di asce, «macchina che beve /il sangue» della vita. Niente sembra in grado di resistere all’urto di questa forza cieca e mostruosa, ma è proprio allora che, dal groviglio del mondo vegetale, torna la dea Giaguaro, la più antica tra le dee, colei che sta «sul ramo più alto del sogno» poiché tutto sa e vede. Ai suoi figli – i bambini giaguaro, appunto – sarà delegato un compito decisivo: condannati dalla Storia all’esodo nelle città, solo essi potranno tentare di diffondere, tra le vie di un mondo soffocato e ottuso, le voci, i canti, i suoni, lo spirito della foresta: il respiro del sacro, «il vento che tramuta /in uccello la foglia», la tenerezza amorosa della ninfea che «apre i suoi petali ogni notte /per essere baciata dalla luna», la musica lenta dei fiumi, il verde che «non appartiene ai sentimenti /ma all’acqua, alla carne», il colloquio degli uccelli con le anime o delle piante con il cielo. Solo da questa banda di creature leggere, cui è dato scorgere tutto ciòche noi non vediamo, potrà forse scaturire sulla terra, un giorno di danze e di fuochi azzurri, «l’inizio di un nuovo pensiero».
Nelle più recenti raccolte della Theóphilo lo scenario amazzonico è disegnato in controcanto a una realtà storica sempre più minacciosa e sinistra: il rumore dei motori nel colmo della foresta, gli alberi arsi dalla defoliazione chimica, i pezzi di metallo che sprizzano dai legni spezzati, i pesci che confusi si aggirano tra le acque dei fiumi nutrendosi di fogli di plastica, la terra resa arenosa, il deserto che avanza… Di fronte a questo duro, impietoso assedio della modernità, la vita degli indios è sempre più precaria, appesa al filo di un’incerta, dolorosa sopravvivenza. Fra questi uomini, tuttavia, resiste qualcosa come una fiducia inattaccabile nella terra e nel cielo, nel fuoco e nel vento, nelle pietre e nell’erba come negli dèi che si aggirano tra il folto delle piante, che abitano nel corpo possente del giaguaro o in quello imprendibile dei fiumi. Contro la Volontà fredda che cerca di stritolarle, le etnie del Brasile arcaico continuano, dunque, ad affidarsi alle forze cosmiche evocandole, chiamandole, mimandole, ‘danzandole’. Pochi spettacoli appaiono più struggenti di questi esseri che oppongono all’avanzata della tecnologia le loro maschere, i colori rituali di cui tingono la pelle nuda, le danze con cui imitano i movimenti sinuosi delle serpi o attraverso cui inneggiano al sole e alla luna, le bevute collettive di «cauìm» (il liquore ottenuto dalla fermentazione della manioca), il ritmo dei tamburi, i palpiti e il mistero antico dei miti, delle leggende.
Di tutti questi sortilegi la poesia di Márcia Theóphilo è sempre più chiaramente un riflesso, la prosecuzione con altri mezzi. Come nelle cerimonie guidate dagli sciamani, i suoi versi nominano tutta una serie di dèi, di animali o di frutti («goiaba, cajá, manga, mangàba / muricì, pitanga, jenipàpo») perché il primo compito di ogni vera magia è salvare i nomi, preservare il miracolo del mondo nello spazio del linguaggio. Trascinata dalla propria passione testimoniale come in una spirale vorticosa, dionisiaca, la voce poetante non si limita a dar fiato a cataloghi di creature o di oggetti: diventa essa stessa un oggetto plastico, vivo e vibrante, una cassa di risonanza di mille echi: battito di mani o di piedi, percussione di strumenti, ghirigoro di flauti, formulario magico, voce di ciò che non ha voce, ‘turgida materia’ fluente, suono-grido, suono-scongiuro, suono-inno, suono-appello. Parole intraducibili, arcani riverberi fonetici, fragori e crepitii della vita allo stato puro striano e increspano le pagine come cateratte cangianti, arcobaleni di fiori, viluppi magmatici di liane e collane variopinte, intarsi orgiastici di piume e foglie, di onde, fiamme o capelli acquatici e vegetali. Attraverso tutto ciò, e molto altro, una specie di profumo intensissimo si sprigiona lungo le arcate dei versi – un profumo, però, che ha non solo i timbri squillanti del perenne rinnovarsi del mondo, ma insieme quelli acri, violacei della corruzione, del macerarsi dei corpi, del precipitare delle forme nell’emorragia del tempo. Come, del resto, potrebbe essere altrimenti? Cosa più dello splendore primario della vita si nutre del suo opposto? Chi meglio di questi popoli conosce ciò che, nella ruota cosmica, lega la luce all’ombra, il miele al veleno, la nascita alla morte e viceversa?
Proprio per un tale, profondo sapere, le genti dell’immensa foresta non possono cadere nella disperazione senza appello degli uomini moderni. Forse gli Amniapés, gli Apiacás, i Torás, gli Aruás, i Macurapis, gli Ipotevas, gli Urumis, e tutte le altre tribù colpite dalla Storia, non potranno evitare di bruciare fino all’estremo la propria carne e i propri sogni; ma questi uomini e donne sanno che, come il fiore muore «per dare vita al frutto», o come il canto più alto sgorga dall’uragano, così solo al fondo del loro sacrificio qualcosa rinascerà, qualcosa per cui vale la pena, fin d’ora, continuare a combattere, a mordere i momenti, a respirare le albe e le notti, a inebriarsi, a danzare, a credere che le stelle siano occhi di bambini fuggiti in cielo.
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