Giancristiano Desiderio ha scritto il libro che mancava al Sannio contemporaneo.
Per la rilevanza non meramente localistica del tema trattato e per lo stile profondamente moderno – che appaga sia l’esigenza di conoscere con precisione i fatti, sia l’esigenza di gustare la bellezza della pura narrazione – Pontelandolfo 1861. Tutta un’altra storia, edito da Rubettino, reca una imponente e vitale energia alla tradizione storiografica sannita alla quale – nel secolo XX – hanno offerto contributi fondamentali Alfonso e Almerico Meomartini, Antonio Mellusi, Vincenzo Mazzacane, Abele De Blasio, Gianni Vergineo, Alfredo Zazo, Francesco Flora, Carmelo Lepore, Renato Pescitelli.
La narrazione di Giancristiano Desiderio è una meta-narrazione, revisionismo di revisionismo. L’autore non si limita solo a denunciare, ma smaschera senza possibilità di appello l’opera di mistificazione della verità compiuta dalla corrente storiografica cosiddetta neoborbonica sui fatti di Casalduni e Pontelandolfo.
Muovendo dall’esame comparato della letteratura – a dire il vero copiosissima – presente in materia (tra la «versione» di Giacinto De Sivo e la «versione» di Ugo Simeone fiumi di inchiostro sono stati versati su questa tragica vicenda del meridione), l’autore – capitolo per capitolo – tesse una trama narrativa logicamente serrata e la utilizza per filtrare la verità storica dalle interpolazioni e dalle trasfigurazioni.
Ne viene fuori tutta un’altra storia: a Pontelandolfo e Casalduni non si trattò di rappresaglia, ma di repressione del banditismo; non si trattò di un eccidio, men che meno di uno sterminio di massa, ma di un incendio (per l’esattezza del terzo incendio dopo quello del 1138 appiccato da Ruggero, re dei Normanni, per vendicarsi del Conte di Ariano nella cui contea ricadeva Pontem Landulphi e dopo quello del 1461, “divampato” nello scontro tra Ferdinando I d’Aragona e Giovanni d’Angiò). E poi via seguitando: a Casalduni non ci fu nessun morto fra i civili; a Pontelandolfo i morti fra i civili non furono centinaia, men che meno migliaia, ma tredici; i briganti, e fra questi Cosimo Giordano di Cerreto Sannita con il suo compagno Pilucchiello, furono criminali comuni e avventurieri più che consapevoli servitori della reazione borbonica (implosa su stessa poco prima di manifestarsi); i contadini non furono rivoluzionari traditi da Garibaldi in lotta contro la gattopardesca classe dei galantuomini del sud Italia, bensì soggetti smarriti dall’incedere repentino delle forze storiche in campo: da un lato, l’ordine feudale e baronale incarnato dal potere ecclesiastico e borbonico; dall’altro lato, l’ordine liberale, eversivo della feudalità e liberalizzatore della proprietà privata, nato dagli ideali della rivoluzione francese e veicolato in Italia dalle forze risorgimentali e quindi dai Savoia.
Dal lavoro di Giancristiano Desiderio originano due nuovi problemi storiografici e, direi, finanche morali: in primo luogo, il problema di riabilitare la memoria del cavaliere Achille Jacobelli, che non fu il tristo Jacobelli (come ebbe a scrivere il De Sivo), cioè lo spregiudicato e opportunista voltagabbana responsabile della strage degli innocenti, ma un imprenditore visionario figlio di una frattura storica; in secondo luogo, il problema di riabilitare la memoria dei quaranta militari del neonato esercito italiano, disarmati e barbaramente trucidati a Casalduni. A dire il vero, buona parte del lavoro lo ha già fatto il sanlupese Ugo Simeone, il quale ha piantato due pietre miliari nella letteratura sannita: Achille Jacobelli. Il cavaliere e Il brigantaggio nel beneventano dopo l’unità d’Italia. Da qui, però, e grazie anche all’odierno contributo di Giancristiano Desiderio, molta strada dovrà essere percorsa sugli inediti sentieri della conoscenza storica delle nostre terre; sentieri che conducono alla memoria condivisa, e quindi al comune operare.
A tutto questo si aggiunga una qualità essenziale del libro: il suo essere epocale, il suo giungere a noi al momento giusto.
Mi riferisco non solo e non tanto al fatto che il libro di Giancristiano Desiderio arrivi nell’anno in cui il nostro Sannio è stato eletto a capitale europea del vino; arrivi quindi a raccontare una storia – una delle possibili storie – che i visitatori vorranno ascoltare dagli abitatori.
Mi riferisco, prima ancora, al fatto che il libro di Giancristiano Desiderio racconta le nostre terre senza campanilismo, accende una luce sulle enormi potenzialità dei nostri luoghi, dimostra la possibilità di un fondamento terrestre – di un nomos della terra avrebbe detto il giurista e filosofo tedesco Carl Schmitt – al tempo dello sradicamento telematico, dell’anomia del mercato planetario, dello spaesamento delle nostre esistenze. Non è un caso che Pontelandolfo 1861. Tutta un’altra storia sia coevo a La selva. Un tentativo di serenità nel mezzo della tempesta. In entrambi questi suoi due scritti – nel primo con eleganza storicistica, nel secondo con piglio teoretico – Giancristiano Desiderio si volge ad intendere il passato per determinare i significati del presente, fra i quali emerge uno smisurato bisogno di libertà. Nella conoscenza e nella vita morale.
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