Studi su Bini, Collodi, De Amicis, Valera, Cena
Prof. Giuseppe Traina, Lei è autore del libro Sguardi del potere e sguardi sul potere nell’Ottocento italiano. Studi su Bini, Collodi, De Amicis, Valera, Cena edito da Rubbettino: in che modo opere considerate generalmente “minori” della letteratura italiana dell’Ottocento sono esemplificative del rapporto individuo-potere?
Una prima risposta riguarda l’impatto che alcune opere (penso soprattutto a Le avventure di Pinocchio di Collodi e a Cuore di De Amicis) hanno avuto su un pubblico vastissimo, che era innanzitutto quello infantile-adolescenziale ma finiva per essere anche quello dei genitori e, più in generale, dei lettori curiosi: considerate “minori” dal supercilioso punto di vista dei letterati di stampo tradizionale, queste opere non sono state affatto “minori” dal punto di vista del pubblico, dato lo straordinario successo di cui hanno goduto e che è testimoniato dal gran numero di edizioni e di traduzioni all’estero (è soprattutto il caso di Pinocchio). In più, solitamente queste opere sono state analizzate come “subalterne” al potere, in quanto veicolo dell’ideologia dell’Italia sabauda, come frutti del progettato indottrinamento di concetti di tipo pedagogico, volti a indurre nel lettore giovanissimo un effetto di emulazione rispetto al modello del bravo burattino che sarà ricompensato con la metamorfosi in bravo ragazzino e rispetto al modello di alunno ideale di scuola elementare, educato agli ideali patriottici e solidaristici propugnati in Cuore. Sulla scorta di un’analisi demistificante di questo tipo, condotta anche da letterati illustri come Umberto Eco (penso al suo saggio Elogio di Franti, scritto con l’intenzione di sbugiardare il paternalismo deamicisiano), s’è registrata una complessiva sottovalutazione di queste opere, soprattutto del romanzo di De Amicis. Più fortuna invece ha avuto il romanzo di Collodi che in anni abbastanza recenti è stato sottoposto a letture pluridisciplinari, di tipo religioso, politico, psicanalitico, antropologico, semiologico etc., ognuna in sé molto interessante ma che ha forse oscurato, come le suddette sottovalutazioni di Cuore, un’analisi serena e non pregiudiziale di come le opere furono concepite e recepite, in un contesto storico-culturale di straordinaria importanza come quello dell’Italia postunitaria.
Ecco allora che, muovendo dalla considerazione che Collodi e De Amicis furono esponenti tutt’altro che timidi del radicalismo e del socialismo italiani di quel tempo, mi è parso, e ho provato a dimostrare nel libro, che questi due capolavori (ma anche altre opere dei due autori, soprattutto di De Amicis) possano invece leggersi in modo diverso: Cuore come mezzo di una sincera educazione ai valori fondativi di una “nuova Italia” (come amava chiamarla Benedetto Croce) i quali, soprattutto negli anni immediatamente successivi al ’61 e prima dell’età crispina, erano tutt’altro che ipocritamente piccolo-borghesi come sono stati giudicati; Le avventure di Pinocchio come romanzo portatore di una prospettiva realmente alternativa rispetto a certi rappresentanti dell’autorità giudiziaria, paterna, poliziesca, insomma politica tout court.
Un discorso analogo si può fare per Manoscritto di un prigioniero di Carlo Bini, un testo molto amato da grandi esperti di letteratura italiana dell’Ottocento come i compianti Sebastiano Timpanaro e Carlo Alberto Madrignani ma ancora sconosciuto ai più, malgrado i loro sforzi e quelli di altri valorosi studiosi. Carlo Bini, un mazziniano materialista dalle venature ideologiche saintsimoniane, con questo libro ci ha lasciato, contemporaneamente, una testimonianza vivissima (direi molto più vivace rispetto al più celebre Le mie prigioni di Pellico) dell’esperienza carceraria risorgimentale ma soprattutto un libro di forte polemica sociale, letterariamente trasfigurata in forme diverse, e originali, rispetto sia alla tradizione classicista italiana che al contemporaneo sviluppo della narrativa romantica. Un esperimento molto originale e ideologicamente modernissimo, nel quale non è difficile rinvenire le tracce di un punto di vista che oggi si potrebbe definire “foucaultiano”.
In che modo nelle Avventure di Pinocchio di Collodi, in Cuore e negli altri testi deamicisiani emerge la costruzione dell’Italia postunitaria?
Come accennavo prima, di Collodi e De Amicis c’è, innanzitutto, da fidarsi. Come se ne fidavano i loro piccoli lettori, dotati di un fiuto infallibile di fronte alle scritture progettate “per i ragazzi” come frutto di un “mestiere” editoriale e non di un’autentica ispirazione. La mia idea è che la scrittura per ragazzi in Collodi e De Amicis, come fu anche per la narrativa di Emilio Salgari, abbia risposto a esigenze profondamente autentiche, che le analisi di stampo sociologico dell’editoria letteraria non possono restituire nella loro pienezza. Basti considerare, come ho provato a fare soprattutto a proposito di De Amicis (ma a proposito di Collodi lo hanno fatto altri studiosi, come Daniela Marcheschi, Fernando Tempesti o Luciano Curreri), la profonda coerenza tra i loro capolavori e la maggior parte delle loro altre opere considerate “minori”: penso soprattutto al romanzo socialista Il Primo maggio o a diverse novelle deamicisiane, prima fra tutte Amore e ginnastica ma anche La maestrina degli operai. A proposito di Cuore vorrei infine sottolineare due cose: l’elogio della bontà, che a molti critici è sembrato ipocrita e paternalistico, non era affatto così scontato e inevitabile; se davvero la prospettiva da cui De Amicis muoveva fosse stata così ipocrita e paternalistica, non si vede perché l’apertura interclassista dovesse necessariamente essere compresa in quello che avrebbe potuto essere semplicemente un elogio del “bravo scolaro” rispettoso dell’autorità del maestro e dell’ordine costituito. Insomma, la mia impressione è che chi ha voluto sottovalutare l’ispirazione socialista, laica e interclassista di De Amicis abbia cercato di farne, cent’anni dopo, una specie di democristiano ante litteram. Invece l’autore di Cuore ha voluto che nell’educazione del piccolo protagonista di buona famiglia altoborghese, impartita concordemente dai genitori e dal maestro di scuola, fosse compreso un contatto diretto e concreto (uno “sporcarsi le mani” non mediato) con l’Altro da sé – i compagni poverissimi o figli di carcerati, i minorati fisici e mentali, gli allievi delle scuole serali per adulti, i reduci e mutilati delle guerre risorgimentali, etc. – che a me appare molto significativo come proposta pedagogica di uno sviluppo socio-culturale che non dimentichi nessuna classe sofferente della società in costruzione; di uno sviluppo, peraltro, integralmente laico, legato ai valori dello Stato italiano e unitario, e svincolato da qualsiasi interesse per la presenza delle istituzioni legate alla Chiesa cattolica italiana.
Un discorso analogo si può fare per il radicale e repubblicano Collodi, le cui insofferenze ideologiche, che avrebbero potuto rimanere confinate nella dimensione un po’ provinciale e pettegola del giornalismo fiorentino, trovarono invece nella creazione del burattino più celebre del mondo, e in un linguaggio palesemente di comprensione universale, un modo allegoricamente assai efficace di parlare ai giovani lettori, e futuri cittadini, delle prevaricazioni, delle ingiustizie, delle subornazioni che non soltanto i finti amici (come il Gatto e la Volpe) ma soprattutto personaggi molto più ambigui (come l’Omino di Burro o, per certi versi, la stessa Fata Turchina) riescono a perpetrare se il soggetto-bambino non si predispone a una crescita consapevole e all’approdo verso il mondo adulto. Che passa sì per la contestazione dell’autorità paterna ma poi ne sa riconoscere l’autenticità profonda e l’altruismo, monete niente affatto correnti nel mondo anti-idilliaco che Pinocchio percorre col suo passo velocissimo.
Come si esprime la “questione sociale” di fine-secolo, legata agli effetti della politica crispina e ai movimenti di stampo socialista, anarchico e femminista nelle opere letterarie coeve?
La sua domanda si riferisce agli ultimi due romanzi che ho analizzato in questo libro, ancora meno noti del pur poco noto Manoscritto di un prigioniero: si tratta di La folla dello scrittore lombardo Paolo Valera e Gli Ammonitori del piemontese Giovanni Cena. Entrambi gli scrittori hanno saputo esprimere, non solo con questi testi ma con un’intensa attività pubblicistica, ideali solidaristici di stampo anarchico-socialista (più anarchico Valera, più socialista Cena: e sia pure, come gli è stato rimproverato, di un socialismo “umanitario” che forse andrebbe riscoperto nei suoi aspetti più autentici e storicamente sottovalutati). Com’è evidente in questi due romanzi – che furono in diverse occasioni rivalutati da letterati importanti come Folco Portinari, Glauco Viazzi o Italo Calvino (quest’ultimo ripubblicò Gli Ammonitori nella sua bellissima collana einaudiana “Centopagine”) ma che, malgrado questo, sono ancora largamente ignorati dalle storie della letteratura italiana – per Valera e Cena a dover essere riscattata è la condizione socio-economica non tanto degli operai o dei contadini ma quella del sottoproletariato urbano, che vive in miserrime condizioni dentro enormi condomìni, a Milano o a Torino, che vengono rappresentati più o meno come gironi infernali di indicibile sofferenza. Si tratta di un sottoproletariato che vive di espedienti, raramente mantenendosi entro i confini del rispetto della legge, ma sempre esprimendo un estremo bisogno di amore, comprensione, soccorso. Non è un caso che entrambi questi due romanzi, pur essendo venati da profondo pessimismo, fanno intravedere alcune vie d’uscita per quest’umanità irredenta: nel romanzo di Valera, si tratta del soccorso altruistico di chi, pur essendo nato nello stesso ambiente, è riuscito, con intraprendenza o con spirito di sacrificio, a tirarsene fuori, raggiungendo una condizione un po’ più agiata e si volge indietro, cercando di fare quel che può per aiutare i diseredati che tanto bene conosce; nel romanzo di Cena si tratta dell’altruismo con cui singoli individui, provenienti da classi sociali agiate ma sorretti da profonda cultura positivistica e da ideali socialisti, intendono la propria professione (per es. medica) come missione da compiere per il bene di questa umanità dimenticata. Non è facile che queste utopie si realizzino; stranamente Valera, che ha dato delle condizioni anche morali di questa “folla” una rappresentazione più raccapricciante, scrive un romanzo che riesce a trovare uno spiraglio di ottimismo, proprio in conclusione; Cena, invece, che aveva dato una rappresentazione meno tragica delle sofferenze del sottoproletariato metropolitano, ipotizza una soluzione che avrà, sì, valore ammonitorio, come suggerisce il titolo, ma si risolve, di fatto, nella morte quasi inutile del protagonista. Anche se, a tal proposito, bisogna distinguere tra i due finali previsti dall’autore per l’edizione a puntate e per l’edizione in volume del romanzo.