Per la ricostruzione del dopo Terremoto dell’Irpinia del 1980 sono stati spesi 64 mila miliari di euro, pari a 32miliardi di euro circa. Sono queste le ultime stime fatte dalla Corte dei Conti, quaranta anni dopo la tragedia che colpì la provincia di Avellino, precisamente alle 19.34 del 23 novembre 1980. Ma i danni non furono solo le morti e le distruzioni, ma anche quelle profonde ferite mai rimarginate della ricostruzione. Ferite che ancora oggi sono da ritrovarsi non solo negli edifici, ma anche nella vita di intere generazioni, che hanno vissuto o meno il terremoto. Ne è convinto Stefano Ventura, studioso del sisma dell’Irpinia, nato proprio nel 1980 in Svizzera, ma cresciuto a Teora (Avellino). Si è laureato in Storia all’Università di Siena con una tesi dal titolo “Irpinia 1980-1992: storia e memoria del terremoto” e ha conseguito il titolo di dottore di ricerca nel 2009 presso la scuola di dottorato in Scienze Storiche, Politiche, Giuridiche e Sociali dell’Università di Siena con progetto di ricerca su “L’Irpinia dopo il terremoto”. Coordina l’Osservatorio sul Doposisma della Fondazione MIDA (Musei Integrati dell’Ambiente) di Pertosa (Salerno). A 40 anni dal Terremoto ha ha fatto il punto della situazione nel libro dal titolo: “Storia di una ricostruzione” (Rubettino Editore).
Il Terremoto del 1980 ha un’eredità pesante ancora oggi. “La ricostruzione è quasi finita, mancano pochi dettagli – spiega Ventura – È stata travagliata e discussa e si è creata una memoria difficile che colpisce soprattutto i terremotati e una memoria nell’opinione pubblica che ha marcato l’Irpinia sempre come scandalo e esempio negativo”. Lo storico spiega che negli anni ’80 c’era una classe politica in Irpinia che ha avuto anche ruoli nazionali. “La spesa pubblica non veniva controllata come accade oggi – dice – Si era creato il così detto partito unico della ‘spesa pubblica’, si era diffusa cioè la convinzione che bisognasse fare interventi per risarcire le zone più povere di Italia. Un investimento molto cospicuo a livello finanziario destinato a tanti comuni per la ricostruzione”.
“Nella fascia di danno sono stati inclusi 687 comuni e quindi i soldi della ricostruzione non sono andati solo ai comuni più colpiti ma anche a tanti altri che hanno trovato nell’ ‘occasione’ del Terremoto il modo per sostituire i finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno che stava per chiudere – continua Ventura – Poi è arrivata la Commissione di Inchiesta degli anni ’90 e tante altre cose che nel corso di 40 anni hanno cambiato le modalità di intervento”. “Irpiniagate”, “Terremotopoli” sono solo alcuni dei fantasiosi nomi che furono dati a quelle indagini. “Al di là degli scandali legati alle cifre, secondo me il piano di intervento industriale è quello che è stato gestito peggio a livello finanziario e di progettualità perché è giusto portare lavoro e sviluppo in aree depresse però bisogna comunque considerare quali sono le vocazioni del territorio. Invece in Irpinia sono state create le fabbriche, 20 aree industriali, circa 250 aziende, quasi tutte a titolarità esterna, quindi non c’erano imprenditori locali o una classe dirigente locale che gestiva queste aziende che di fatto non avevano alcun collegamento con il territorio, l’agricoltura o l’artigianato tipico della zona. E quindi il progetto è in gran parte fallito nel corso degli anni”.
Ventura ha partecipato a diversi studi sulle ricostruzioni di diversi territori con l’Osservatorio sul doposisma della Fondazione Mida. Attivo da 10 anni, promuove dossier di ricerca nell’ambito delle scienze sociali, è un piccolo sismografo sociale, definisce cioè cosa accade in un doposisma, ma anche dopo casi come il ritorno alla terra del Cilento e Basilicata. Il piccolo centro di ricerca ha le radici proprio nel 23 novembre 1980: fa ricerca-azione, produce riflessioni che possano essere da stimolo e discussione su tutte le ricostruzioni. Uno dei saggi prodotti è “Terremoto 20+20 ricordare per ricostruire”, in cui viene fatto un parallelo con il coronavirus attuale, partendo dall’esperienza di aver ricostruito dopo la catastrofe del terremoto per ripartire dopo la pandemia.
“Dopo il terremoto ci sono tanti paesi riedificati secondo una logica propria che hanno ricostruito tantissime opere pubbliche ed edifici che però oggi sono vuote a causa dello spopolamento – continua Ventura – Quindi le promesse fatte di sviluppo negli anni ’80 non hanno fermato l’emigrazione che già prima coinvolgeva questi testimoni. A questo si aggiunge la mancanza dei servizi di base come ospedali scuole, trasporti e la banda larga. Questi sono i risultati di una ricostruzione che non è stata efficace”.
Poi ci sono i casi di quei paesi come Conza, Senerchia Romagnano al Monte e altri, abbandonati e ricostruiti in una zona accanto. Conza della Campania fu abbandonato perché fu definito parco archeologico dopo alcuni ritrovamenti di resti archeologici venuti fuori dopo la scossa. Per questo motivo il centro storico distrutto è stato poi definitivamente chiuso. “Oggi sono paesi fantasma – continua Ventura – Nei nuovi paesi ricostruiti gli abitanti di quelli vecchi trovano difficoltà a viverci, non è la loro realtà. Poi ci sono generazioni che hanno conosciuto solo quelli nuovi. Si vive un certo spaesamento, è una questione di identità che la scossa ha cancellato e che dopo il terremoto non è stata più recuperata”.
In Italia abbiamo una familiarità con i disastri in Italia. “Ma non abbiamo una trasmissione di esperienze abbastanza valida – spiega Ventura – L’unica forma positiva sta nel volontariato che è una costante che interviene sempre, in ogni disastro. Cambiano invece le ‘filosofie di intervento’. Già se pensiamo all’Aquila del 2009 e all’Emilia del 2013 ci sono state filosofie di intervento molto differenti in territori diversi con governi diversi. In Irpinia c’era l’idea degli aiuti a pioggia, oggi la spesa pubblica è molto più controllata. Bisognerebbe costruire un database di ogni ricostruzione per non dimenticare e fare tesoro delle esperienze”.
Il terremoto ha dato il via a un nuovo tipo di intervento, quello straordinario, l’ccezionale, legato a catastrofi ed eventi fuori dall’ordinario. “Per questo si arrivò a spese non controllate – conclude Ventura – In quelle spese fu incluso di tutto, anche la ricostruzione di quei luoghi non legati al terremoto. Questo è stato il più grande errore della ricostruzione e che poi ha portato a una spesa enorme per lo Stato italiano. Poiché all’epoca della ricostruzione tutti i comuni dovevano rifare i piani urbanistici per bene, non avendoli, i primi soldi arrivarono a quei comuni che dovevano solo riparare e che quindi avevano subito solo in parte. Quei soldi, che erano tanti, andarono a quei comuni al di fuori dei 36 più colpiti e a finanziare cose come lo sviluppo industriale che erano molto costose e il rapporto costo benefici era deludente. Poi alla fine degli anni ’80, quando i comuni erano pronti, fu il tempo delle polemiche e dei fondi interrotti. E così la ricostruzione è andata per le lunghe durando 35 anni. Tantissimi”.
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