“Lettere alla moglie di Hagenbach” (Rubbettino 2020), ultimo romanzo di Giuseppe Aloe, è stato presentato il 18 agosto 2020 alla Libreria Gioacchino Tavella di Lamezia Terme durante un incontro organizzato in collaborazione con il Regno della Litweb della blogger Ippolita Luzzo che ha conversato con l’autore insieme con Olimpio Talarico e Giovanna Villella
“Io ero Flesherman”. Un incipit alto, lapidario quasi. Il pronome di prima persona a rivendicare la propria identità che, concettualmente, si lega ad un altro IO “Je suis comme le roi d’un pays pluvieux, / Riche, mais impuissant, jeune et pourtant très vieux, […]” (Baudelaire, Spleen LXXII) e l’imperfetto, il tempo dell’autonarrazione, del passato che per sortilegio continua in un presente apparentemente razionale, gestito dentro le maglie e le regole della società ma che minaccia di pararsi davanti al protagonista per varchi oscuri e paurosi.
Flesherman, che nel nome porta il peso della carne, oscilla tra una polarità caratterizzata da un principio di disgregazione ad un’altra segnata da una straordinaria lucidità e, spesso, da una patita consapevolezza.
Questo Io-diviso porta il protagonista a effettuare, proiettivamente, fughe in avanti o all’indietro essendo il presente, che pure sta vivendo, sinonimo di vacua attesa.
Attesa dell’oblio che fa dimenticare la vita. A lui, criminologo di successo, è stata diagnosticata una forma di demenza senile. Ci vorrà del tempo, forse, prima che la malattia degeneri inesorabilmente in Alzheimer.
Ma già si trova a vivere quella fase di “bradisismo” in cui, con movimento lento, immagini del passato e ricordi rassicuranti emergono e si intrecciano a situazioni del presente, a sensazioni, a desideri che la realtà nega, alternandosi a immagini oniriche che nascono non dal sonno ma da una stanchezza che non trova riposo.
E qui la malattia non è presentata in termini di referto medico – siamo pur sempre sul versante della letteratura e non dell’analisi clinica – ma si traduce nell’ascolto intermittente di sintomi spaiati: ombre che si materializzano in presenze minacciose, difficoltà di orientamento anche negli spazi domestici, difficoltà a riconoscere volti cari e a concentrarsi, omissione di impegni, il corpo sentito nelle sue limitazioni, parole che si perdono o che perdono il proprio valore informativo per diventare pura phoné.
La libertà formale del linguaggio e la sua polivalenza espressiva si originano dalla dissociazione di tutta una trama di referenze laddove le parole mantenute o ripetute ecolalicamente servono a dare l’illusione che esse possano riempire la fortezza vuota del proprio corpo prima che l’anima abiti il silenzio divorante.
La sensazione di essere esiliato dal mondo e la percezione di una propria radicale estraneità inducono Flesherman a un viaggio di lavoro su invito del collega Bausch per una consulenza sul cadavere di Rosa Luxemburg. Un viaggio che in realtà è una fuga, il desiderio di ritagliarsi uno spazio privato di libertà, un angolo di diserzione per prendere le distanze da sé stesso.
La narrazione si sposta in una Berlino postmoderna i cui confini sono virtualmente segnati da due luoghi contrapposti la Potsdamerplatz e la Charité, una piazza e un ospedale, spazio di libertà e di socialità l’uno, luogo di sofferenza e morte l’altro.
Ma già il mondo comincia ad apparirgli irreale, deformato, angosciosamente irraggiungibile o pericolosamente incombente.
Qui apprende della scomparsa dello scrittore Hagenbach e della malattia di sua moglie Dora affetta da Alzheimer e decide di mettersi sulle tracce di Hagenbach: penetra nella sua casa, sottrae delle foto, va a trovare Dora in ospedale…
Diventare transfughi dal proprio universo ed evadere per abitare altre vite dunque.
Ma è la mise en abîme del tema epistolare, prima e la lettura dei racconti di Hagenbach poi ad innescare il détournement. L’espediente narratologico delle lettere serve a creare un doppio, una proiezione in cui Flesherman riconosce i propri pensieri “parlati” fino alla completa identificazione con colei a cui quelle lettere sono destinate “Ero io Dora”, eco letterario di quel “Madame Bovary c’est moi!” di flaubertiana memoria.
A questo tema si lega intimamente la sofferenza dei familiari che devono prendersi cura di questi malati. Hagenbach, grande scrittore di “eccezionale modestia”, dopo una fase di non accettazione della malattia di Dora – – che sfiora quasi il negazionismo, sviluppa nei confronti della propria compagna di vita, ridotta ormai a “passero muto”, una sorta di “dipendenza affettiva” che appartiene agli amori antichi e quelle lettere, “placide e disperate”, sono, in qualche misura, il filo della Parche prima che Atropo lo recida, mentre la figura della moglie di Flesherman, nella quale si scorge una misurata sollecitudine materna, è il suo costante, inamovibile punto di riferimento, la sua certezza, la sua casa quando lui è disorientato, i suoi ricordi quando la sua memoria vacilla… A lei il compito di leggergli – come si fa con le favole raccontate ai bambini – quella vita dimenticata, ma non cancellata.
E nel gioco degli specchiamenti si inscrive ancora la bella Vanderleine che regalerà a Flesherman gli ultimi sussulti di vorace sensualità in un corpo finito diventando filtro speculare di Odette, sua giovane fiamma ai tempi del vigore fisico. Un universo femminile capace di far gemmare una realtà emozionalmente sfrangiata che ha la parvenza della vita piena.
Laddove la rapsodia della partecipazione affettiva all’umanità che lo circonda, rievocando atmosfere slaviste, comprende l’eventualità di incontri immaginari come quello con Gregor Samsa con il quale più che il processo di metamorfosi – pur nelle evidenti differenze entrambi diventano “altro da sé” – condivide la difficoltà di soddisfare i bisogni più immediati e l’inutile ricerca di un angolo nascosto e sicuro in cui trovare rifugio e quiete. Così quel gesto di scopa che spazza via i resti di Gregor si traduce in Flesherman nel desiderio di librarsi in volo come massima espressione di nichilistica liberazione, non di libertà.
Lettere alla moglie di Hagenbach è un romanzo che parla alla mente del lettore ma non occulta l’essere umano. Una storia di partenze, arrivi e ripartenze, di fughe e di ritorni, di inseguimenti e di audacie, di sogni e di memoria, di tedi e improvvise malinconie, di proiezioni e di chimere tutti percorsi nell’unica strada del silenzio con il disperato bisogno-desiderio di impadronirsi del mondo e della vita che sfugge sotto gli occhi…
E quando salta ogni consequenzialità temporale non resta che l’anamnesi di eventi onirici deprivati, qui, dell’atmosfera alonata che di solito i sogni hanno intorno e restituiti come oggetti dell’immaginario o anticipatori del reale.
Il rimando a Breton sembra quanto mai pertinente rispetto al puro racconto di sogni nel cui interno “il tempo e lo spazio sono oggetto di una beffa continua, dove convivono il tragico, il grottesco e l’assurdo”.
Lettere alla moglie di Hagenbach è un testo che tra ambigui bagliori e affascinanti opacità suggerisce silenzi in una lingua che sorpassa la medietà del quotidiano e insegue la lontana perfezione di uno stile sobrio e controllato con un movimento pendolare tra impegno e distacco formale.
L’autore è consapevole della possibilità della scrittura di creare realtà e non sempre e soltanto favole o incantesimi linguistici pur rimanendo, egli, fuori, ai margini anche se il rischio è quello di precipitare.
Nel suo dettato narrativo – intessuto di rimandi carsici e suggestioni culturali della grande letteratura di tutti i tempi: da Shakespeare a Baudelaire da Gogol a Kafka passando per T. S. Eliot anche se qui le “donne vanno e vengono parlando di niente” e non di Michelangelo – si trova sempre l’allusione all’inespresso, al non-detto e la sua scrittura, impostata sul riscontro antiretorico dell’angoscia, sull’incontro della morte e la sua attesa fa di Giuseppe Aloe un grande scrittore dal respiro europeo.
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