L’Intervento di Oliviero La Stella alla presentazione del libro a Roma, il 20 aprile 2017
Sono degli eroi per caso, i sei fratelli Tota protagonisti de “Il sogno italiano”. O quanto meno degli eroi non intenzionali.
Dal punto di vista letterario, questo è – a mio giudizio – uno degli elementi di fascino del romanzo di Ylljet Aliçka, ispirato come è noto alla vicenda dei fratelli Popa.
Anche se i Tota attribuiranno successivamente una valenza rivoluzionaria al loro gesto, quello di infilarsi nel cortile dell’ambasciata italiana, va detto che l’hanno compiuto per guadagnarsi una vita migliore di quella triste che hanno vissuto in Albania sotto la dittatura di Enver Hoxha.
Rivendicheranno, nella seconda parte del romanzo, quella ambientata in Italia, di essere riconosciuti come gli “eroi del 1985”. Tali si ritengono per una serie di ragioni: per essere fuggiti al regime comunista irrompendo nell’ambasciata italiana e chiedendo asilo al nostro Paese, per quei cinque anni trascorsi nel seminterrato dell’ambasciata, per aver lasciato esterrefatto il regime dinanzi al loro gesto clamoroso, perché per loro si è mobilitato al massimo livello il governo italiano e finanche il segretario dell’Onu Perez de Cuellar.
E infine ritengono di essere i precursori del grande esodo dall’Albania verso l’Italia e, in effetti, lo sono stati: l’arrivo nel porto di Bari del mercantile Vlora, con il suo carico di oltre ventimila albanesi in fuga dal loro Paese, avverrà infatti sei anni più tardi, nel 1991.
Fra loro e le masse che seguiranno il loro esempio ci sono tuttavia, a mio parere, delle differenze nelle motivazioni della fuga. Si è molto detto e scritto, ad esempio, sulla televisione italiana come magnete in grado di attrarre tanti albanesi da un Paese sconvolto da una crisi profonda verso un Paese che veniva dipinto ricco e felice, l’Italia “del mulino bianco”, come allora si diceva. Ebbene, questo non sembra essere il caso dei Tota. La tv italiana non la guardavano. Si sono rivolti all’Italia per una sorta di credito che ritenevano di avere, per ragioni di storia familiare, nei confronti del nostro Paese.
Ma torniamo ai tempi di Hoxha. Un leader paranoico che ha governato con il Paese per quarant’anni con il pugno di ferro. Una dittatura sotto la quale era facile cadere in disgrazia e, dunque finire in carcere o ai lavori forzati, o perdere il lavoro, o peggio venire giustiziati. Bastava poco. Anche leggere libri sbagliati, ascoltare la musica rock americana o i programmi radiotelevisivi italiani.
I fratelli Tota, al di là di truccare i contatori della luce e dell’acqua, ascoltare la radio italiana e covare una certa insofferenza verso il regime, comportamenti e pensieri che peraltro condividevano con buona parte degli albanesi, al di là di questo non facevano nulla di sovversivo. Ambivano semplicemente a una vita normale. E per questo hanno aderito all’idea di Simon, il più piccolo dei fratelli, e hanno varcato – non senza paura – il cancello dell’ambasciata.
Sotto il regime una vita normale gli era inibita. I Tota avevano infatti ereditato una colpa, la colpa del padre farmacista, il quale era stato a suo tempo accusato di aver solidarizzato con l’occupante italiano e di non essersi poi unito alla resistenza. Per queste ragioni era stato incarcerato e ai figli era stato impedito di frequentare l’università. I sei fratelli pertanto svolgevano lavori modesti: operaio, facchino, ricamatrice, nel migliore dei casi un lavoro di contabile. Anche l’amore e normali relazioni sociali erano loro impediti, perché a causa di questa colpa originaria, questo marchio d’infamia, erano tenuti a distanza, considerati un po’ come degli appestati.
Quando muore Enver Hoxha, nel 1985, essi vorrebbero come tutti partecipare al solenne funerale del padre della Patria. Ma ciò ai due terzi della famiglia viene impedito perché, appunto, sono «segnati da una biografia politica compromettente». Solo due ottengono «l’autorizzazione a esprimere il loro dolore», come scrive Aliçka nelle prime righe del romanzo, un incipit molto incisivo con il quale l’autore già semina alcuni elementi sui protagonisti della sua storia.
Nelle pagine che seguono l’autore racconta la dittatura attraverso i funerali, quelli di Hoxha e quelli di altri dirigenti del partito comunista deceduti in precedenza. Come abbiamo detto occorrono requisiti di provata fedeltà per potervi partecipare; ma sono anche più o meno codificate – e osservate da solerti informatori dei servizi segreti – le modalità attraverso le quali i partecipanti esprimono il loro dolore. E’ quello che il professor Mauro Geraci ha definito molto efficacemente “il teatro delle lacrime”.
Aliçka fa dire a un operaio: «Anche un asino sa che, a seconda del modo in cui manifesta il dolore, quindi di come piange, ognuno esprime i suoi sentimenti», ovvero «la simpatia o l’antipatia per il regime». Per questo ci sono questi spioni che con l’accuratezza di un contabile prendono nota delle lacrime versate, dei singhiozzi, delle espressioni di cordoglio. E in occasione della morte del padre della patria è evidente che il lutto va espresso con modalità eccezionali e dunque c’è chi si getta in terra, chi si batte il capo, chi si strappa i capelli, chi recita versi…
Non possiamo non riconoscere che queste pagine sono davvero divertenti. L’autore ha la capacità non comune di adottare registri narrativi differenti per le differenti situazioni che descrive. E qui, per raccontare il regime, ricorre alla farsa. Il critico Goffredo Fofi ha giustamente evocato la “commedia all’italiana”, a proposito del romanzo. E’ – come ho detto – una capacità rara, quella di Aliçka, propria dei narratori maturi, migliori.
L’autore ricorrerà invece alla tragedia per raccontare quello che avrebbe dovuto essere il momento felice della storia, ovvero l’arrivo e la vita in Italia dei sei fratelli. Qui pensavano di trovare la dignità, la libertà e forse anche l’amore. Qui pensavano di ottenere una ricompensa per quei cinque lunghi e durissimi anni trascorsi in un seminterrato dell’ambasciata italiana a Tirana. Così non sarà perché appunto, come vedremo, le loro esistenze volgeranno via via in tragedia.
Nella seconda parte “Il sogno italiano” si rivela un potente romanzo kafkiano. A me ricorda molto “Il castello” di Kafka, la lotta del signor K. contro la burocrazia del Castello per ottenere la legittimazione della sua posizione. Egli sostiene di aver ricevuto una lettera di assunzione come agrimensore alle dipendenze del conte di West West – la fantomatica entità che domina sul villaggio – e pertanto si batte e si consuma per rivendicare il posto che invece la burocrazia gli nega. Anche i fratelli Tota in questa parte della storia, quella italiana, consumano la loro esistenza nel rivendicare un riconoscimento, una legittimazione. Invano.
Tornando a Kafka, ricorderete la lezione che il sovrintendente del villaggio tiene al signor K., l’aspirante agrimensore, sulla burocrazia del Castello. Fra le cose che apprendiamo è che essa è un’immensa macchina umana che agisce da sola, alla quale non importano i casi delle persone reali, il destino di questa o di quella creatura con il suo carico di desideri, di felicità e di dolore. La macchina del Castello non conosce cosa sia la carità o l’amore: è formalista. Così scrive Pietro Citati, il suo splendido saggio su Kafka. I fratelli Tota, una volta giunti in Italia, invece dell’agognato riconoscimento si trovano di fronte a una macchina umana come quella descritta da Kafka. Una burocrazia che non ha alcun interesse al loro «carico di desideri, di felicità e di dolore», sempre per usare le parole di Citati.
Altro che gli eroi di Tirana! Leggiamo come si rivolge loro un’arcigna e arrogante funzionaria della Prefettura di Roma. «I soggiorni, cos’altro?!» – esplose in una risata sincera la donna . «Li vedete quelli che sono seduti lì? Sono sei anni che aspettano di ricevere il permesso di soggiorno e vengono a presentarsi qui una volta al mese. Voi vi credete tanto privilegiati da ottenerli in una giornata?».
I Tota sono ora una pratica della Prefettura. Nei loro confronti non c’è non dico amore ma neppure una qualche forma di partecipazione umana.
Per la verità, una pratica – seppure di diplomazia internazionale – lo erano anche quando si trovavano nell’ambasciata assediati dalla polizia e dai manifestanti albanesi. Erano una grana per gli ambasciatori (uno dei quali cadde addirittura in depressione per non essere riuscito a risolverla) e anche per il governo italiano. Nel libro Andreotti, ministro degli Esteri, con insofferenza sussurra a Craxi, allora capo del governo: «Non ci sta mica chiedendo asilo Solzenicyn o Sacharov. Non sono che sei sconosciuti!».
Ma solo giunti in Italia i Tota hanno la concreta consapevolezza di essere soltanto una pratica burocratica. «Non interessa a nessuno occuparsi degli eroi del 1985 – dice Vangjel, il fratello maggiore – si sono dimenticati di noi e non se ne ricorderanno più».
Umanità verso i fratelli Tota nel libro di Aliçka ce n’è poca, anzi non ce n’è per nulla. L’unico gesto di umanità nei loro confronti arriva da un immigrato senegalese, incontrato nel campo profughi in cui sono ospitati subito dopo l’arrivo a Roma. Sarà infatti il senegalese a offrire a Maria, una delle quattro sorelle, un posto di lavoro – nella sua macelleria – e, chi sa?, forse anche un matrimonio e l’amore.
I Tota otterranno l’asilo politico due anni dopo. Otterranno anche un appartamentino nella periferia estrema di Roma e un modesto assegno di mantenimento. Rispetto a tanti profughi si possono dunque dire fortunati. Ma non otterranno mai la legittimazione che si aspettavano, non otterranno mai di essere riconosciuti come “gli eroi del 1985” e di essere trattati come tali.
Come non otterrà la sua legittimazione il signor K., l’agrimensore.
Non sappiamo come va a finire la storia di K. perché, come è noto l’autore non terminò il suo libro. In una nota alla prima edizione del Castello, Max Brod, il letterato amico e sostenitore di Kafka, spiega che a una sua espressa domanda Kafka gli avrebbe confidato l’intenzione che K. morisse di esaurimento, e che proprio in quel momento giungesse dal Castello l’ufficializzazione del suo diritto a restare nel villaggio e lavorarci.
Possiamo accostare questo ipotetico finale del Castello a quello del bel romanzo di Ylljet Aliçka, nel quale la famiglia Tota riceve un parzialissimo riconoscimento dall’Associazione Giuseppe Dossetti e da quel trafiletto del Corriere della sera. Ma è troppo tardi, anche nel loro caso.
Concludo con un caldo invito a leggere questo libro, un libro che ci induce a riflettere non solo sul passato ma anche, e soprattutto, sul presente e su noi stessi.
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