Il cielo comincia dal basso, romanzo di Sonia Serazzi, Rubbettino 2018, è una storia corale in cui l’autrice rivela un impegno creativo privo di sterili rimasticature, distante dalle norme di base del fare romanzo. Potrebbe sembrare – a una lettura superficiale – che tutto giri intorno all’io narrante e al suo naturale alter ego (Rosa Sirace) e che il resto rimanga imprigionato nell’angusto spazio- se pur utile- della subalternità. Così non è. L’autrice, infatti, narra dal di dentro il suo mondo (interiore e fisico), ne fa parte a pieno titolo, i cosiddetti altri sono importanti perché riempiono la sua vita di miti e sogni. Cosicché la sua scrittura delinea le tappe più rilevanti dell’esistenza controversa dei numerosi protagonisti della sua fatica letteraria. Una saga familiare che assorbe la storia antropologica di quanti chiamati ad avere il ruolo sul palcoscenico creativo dell’autrice, e che carpisce per custodire quanto accaduto e accadrà al suo cospetto, nel tentativo riuscito di dare chiara luce alle genti che s’incrociano con la sua vicenda. Una tecnica narrativa non facile ma ben riuscita. Tanti microcosmi sotto un’unica regia, che agisce per conto di un impegno prima di tutto poetico (“Ma un giorno io ho dichiarato d’essere pronta a scodinzolare nel vento, pur di non perdere il cielo di vista”), con l’intento precipuo di conoscere e sorreggere la memoria di comunità in estremo affanno demografico. Il luogo dove ha deciso di vivere Rosa è un piccolo paese del Sud, infatti.
“In quel preciso momento sentii d’amare il Sud
perché ti lascia campare senza chiederti nulla,
come una melanzana viola
nei campi rossi di tramonto”.
L’incipit anticipa in qualche misura il viaggio narrativo della Serazzi. “Antonia Cristallo, mia nonna, dice che noi fummo sempre poveri e mai tamarri”.
È vero, è un Sud povero legato alle antiche norme della civiltà contadina. In questo mondo sospeso tra tradizione e modernità ritorna Rosa Sirace, dopo avere concluso gli studi universitari a Perugia, ma il capoluogo umbro ha lasciato in lei tracce marginali perché ella sente battere nel suo cuore la città alle pendici del Vesuvio, la Napoli dove da piccola andava a trovare nonno Giuseppe Sirace.
Una città dai forti contrasti culturali e antropologici che ha molto influito sulla sua formazione e che vengono anch’essi catapultati nel microcosmo calabro eletto a solido domicilio. Tutto è autobiografico, anche quanto non realmente vissuto fisicamente, l’importante è quello che si vive con l’animo, l’autrice narra – come anticipato – dal di dentro una Koinè che ancora intende resistere ai tumulti sociali della cosiddetta modernità.
I capitoli sono introdotti da citazioni bibliche pertinenti quanto allusive.
Di certo Sonia Serazzi è un’attenta studiosa della Bibbia, che elegge a guida spirituale sia quando si rivela atto d’amore (“Siederanno ognuno tranquillo sotto la vite e sotto il fico e più nessuno li spaventerà, poiché la bocca del Signore degli eserciti ha parlato ), sia quando ammonisce e condanna (“I sazi si sono venduti per un pane, hanno smesso di farlo gli affamati”).
Ma la scrittrice, nel corso del suo narrare, lascia trasparire anche un “necessario” atteggiamento laico, lasciando che le tessere narrative traccino i tratti psicologici più salienti dei pochi abitanti rimasti in paese, nonché quelli dei suoi familiari più stretti, senza caricare i protagonisti di uno spirito religioso pervasivo o caritatevole.
Capitoli medio brevi bisognosi di spazio, d’ossigeno puro. Da qui, all’occorrenza, una certa distanza tra i diversi paragrafi, in sé racconti già definiti.
Pregni di sottile ironia e affettuoso sfottò sono i nomignoli appiccicati ad alcuni stretti familiari. Nicca Fiori, madre della protagonista, alias Baronessa di Barbamannu, Guido Sorace, il padre, alias Il Viscontino di Verolea, e poi il nome vero della nonna, Antonia Cristallo, che potrebbe ugualmente sembrare un nomignolo, donna dal carattere coriaceo, che pretende – forse a ragione – di avere un ruolo pedagogico nei confronti dell’amata nipote che incorona come Rosasua. E poi i vicini di casa, gli amici, alcuni dei quali provvisti di nomignoli calzanti.
Ma è un mondo in decomposizione, purtroppo. La Serazzi, pertanto, ha fretta di salvare memorie, di riempire il suo onesto taccuino di fatti, vicende in grado di restituire corpo e carne ai protagonisti della sua terra, un mondo pregno di antico sudore capace di preservare e trasmettere dignità e forza d’animo.
“La Baronessa di Babbumannu è convinta che la povertà debba tacere, altrimenti diventa una corona di pidocchi: sozzura in mostra che devi grattare lo stesso da solo”.
Un romanzo da leggere senza fretta, assaporandone il ritmo interno, la scrittura originale dove tutto è conoscenza e voglia di vivere.
“Così ho imparato che la vita è andare per qualcuno che ci guarda”.
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