Sulla carta è così: il ministro fissa gli obiettivi e il dirigente pubblico è responsabile della gestione e dei risultati, con tanto di firma. Ma questa autonomia rispetto alla politica, ormai legge da venticinque anni, appare più vicina al mito che alla realtà.
Suggerire al politico un ripensamento, invitarlo a ritirare una direttiva inopportuna, non è, infatti, per un dirigente, una scelta professionalmente suicida, che può influire negativamente sulla sua carriera? È una delle tante domande che si pone Paola D’Avena, dirigente generale della Presidenza del Consiglio, in un pamphlet appena uscito (Burocrate a chi?, 130 pagine, 14 euro, editore Rubbettino), originale perché a uscire allo scoperto è “una voce di dentro” dell’Amministrazione, che respinge il vezzo di esprimersi a forza di leggi, norme e commi, cercando un linguaggio che tutti possano capire, e che non si limita a porre quesiti, ma offre anche risposte e proposte e, soprattutto, perché queste ultime sono “a normativa vigente”.
Dal 1993 ad oggi non si è fatto altro che sfornare riforme della dirigenza, senza far avanzare di un centimetro la qualità e l’efficienza di quest’ultima. Cinque in tutto: la “Sacconi-Cassese”, le leggi “Bassanini”, la “Frattini”, la “Brunetta”, e infine la “Madia”, caduta ancor prima che potesse entrare in vigore. Paola D’Avena, che in passato ha guidato il Dipartimento Risorse umane di Palazzo Chigi, e che ora è al Nucleo tecnico di valutazione degli investimenti, si ribella, fin nel titolo del libro, alla brutta nomea affibbiata alla nostra burocrazia e si chiede se non esistano dei colpevoli non identificati. La non stabilità degli incarichi dirigenziali, ad esempio, o la possibilità di nominare i dirigenti tra persone esterne, scelte dalla politica senza specifici criteri selettivi oggettivi e imparziali. O il fatto stesso che il vertice amministrativo, il capo di tutti i dirigenti di quella Amministrazione, dipenda direttamente dalla politica, e non sia, quindi, una figura autonoma.
Che cosa fare, dunque, per permettere ai migliori dirigenti di seguire senza indugio l’interesse pubblico, non avendo paura dei condizionamenti della politica? Una figura chiave per contrastare la corruzione, il “whistleblower”, il segnalatore degli illeciti, è stata inserita di recente nella normativa della Pubblica amministrazione, assicurandogli un diritto “tendenziale” all’anonimato. Per la D’Avena, al contrario, bisognerebbe seguire in modo pubblico la vita lavorativa di queste persone, dopo la denuncia degli illeciti, potenziando gli strumenti che diano agli onesti il coraggio di uscire allo scoperto e di essere testimoni di legalità.
Un’altra proposta salvifica, e nella stessa direzione della trasparenza, è quella della “dichiarazione dirigenziale”. Ogni dirigente, quando adotta o predispone atti (approvazione di progetti, erogazione di contributi, ecc.) dovrebbe dichiarare sotto la propria responsabilità di aver rispettato le norme, o di avervi legittimamente derogato. Per dribblare il rischio di lungaggini burocratiche, ci dovrebbe essere una dichiarazione standard da firmare, che il politico dovrebbe vistare, nel caso ad esempio di nomina di un suo consulente. Oggi, questi politici possono invece non lasciare nessuna traccia della loro volontà. Sarebbe necessaria anche la dichiarazione del dirigente di vertice. Nessuna nuova legge, per introdurre tutto ciò: sarebbe sufficiente un “atto regolatorio”, da pubblicare sul sito istituzionale.
Anche per il sistema dei controlli interni di regolarità amministrativa e contabile, che può essere affidato a dirigenti della stessa Amministrazione controllata, Paola D’Avena sollecita la trasparenza: si pubblichino tutte le criticità riscontrate, irrogando sanzioni ai funzionari controllori e ai superiori gerarchici che non lo fanno. Un capitolo, questo, destinato a un pubblico più specializzato.
Un altro capitolo è dedicato a un tema complesso come la corruzione, i cui dati sono contrastanti: secondo il Corruption Perpection Index del 2017 l’Italia è messa male perché figura al 54° posto quanto a corruzione percepita (dove il primo posto è riservato al paese meno corrotto). Secondo un diverso indice, invece, – quello del Global Corruption Barometer 2017 –, nel nostro Paese il pagamento di tangenti avviene in una misura compresa tra il 5 e il 10 per cento dei casi soltanto, e perciò l’Italia figura nella seconda delle nove fasce (la prima è la più virtuosa) in cui vengono suddivisi i 119 paesi oggetto di indagine. Vi sono misure di prevenzione adottate fin dal 2012con la legge “Severino”. Ad esempio, la rotazione del personale, dirigenziale e non, incaricato di dirigere ambiti “sensibili”. Ma questa è mal disciplinata: non sono previste sanzioni, in particolare, per le Amministrazioni che rinviano alle calende greche tale rotazione.
L’ultimo capitolo è quello dei tempi per i contratti e per le gare. E qui il lettore-cittadino rimarrà un po’ deluso. Ridurli, rispettando le regole, è davvero un’impresa. Un nostro interrogativo finale sui “premi di risultato” che l’autrice tratta sotto diversi aspetti, ma forse non su questo: perché, – si domanda la gente –, i premi debbono essere erogati proprio a tutti, e non soltanto ai dirigenti più meritevoli? È un modo di stimolare l’efficienza amministrativa questo “premio di massa”, con un livellamento sui valori più alti?
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