Antonio Pascale lo ha proposto per il premio Strega 2020, ma Luce del Nord di Gianluigi Bruni (Rubbettino, pp.281, euro 17, 2020), pur selezionato nella prima fase, non è riuscito ad entrare nella dozzina dei candidati alla vittoria. Peccato, perché il romanzo avrebbe meritato un ulteriore giudizio di merito. Scritto in una lingua colloquiale, familiare, piana, che si dispiega attraverso diverse tonalità, con tre stili diversi quanti sono i protagonisti, Luce del Nord va ben oltre la semplice vicenda di perdenti raccontata dall’autore. Al di là della qualità di lingua e storia ci sono da sottolineare alcuni aspetti della vita di Bruni che vanno detti per capire al meglio il suo romanzo. E’ uno scrittore che appare per certi versi più consono agli ambienti letterari americani che italiani. Nel nostro paese uno scrittore segue in genere il classico percorso della intellettualità: giornali, università, editoria. Invece, il sessantacinquenne Bruni, in possesso di laurea in filosofia e diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia, è una sorta di self made man divenuto scrittore dopo aver lavorato tanto per il cinema e per cooperative sociali fino a diventare precario e poi disoccupato. La rinascita? Un posto da portiere in un condominio della Garbatella. Dal suo piccolo appartamento romano, alle soglie della pensione, ha tirato fuori un manoscritto, segnalato dal Premio Calvino 2019, divenuto poi libro grazie all’editore Rubbettino. Luce del nord nasce dunque in un periodo particolare dell’autore, prende vita da un attento sguardo sul popolare quartiere di Roma, dove convivono insieme emarginati e professionisti. L’attenzione di Bruni si concentra in particolare su tre disgraziati che diventano i protagonisti di quel particolare baricentro metropolitano. Frank è un vecchio stuntman, ormai alcolizzato, Cristian è un ragazzo con seri problemi relazionali, Eva una badante cinquantenne che vive di ricordi. Fin dal primo momento il libro presenta una struttura tripartita con una narrazione in soggettiva che si alterna a presentare le singole vite: “Io non li leggo mai i libri.” – comincia Frank, “Io allora abitavo con due ragazze straniere.” – fa Cristian, “Sono brutta. Grassa. Disgustosa.” – dice Eva. Che ha studiato, progetta libri senza costrutto, ma per vivere assiste un’anziana. Sembra pure che possa avere in eredità la casa dalla signora, ma alla morte della vecchia viene messa in vendita. E ora? Frank ha lavorato nel cinema conducendo una vita illuminata dal riflesso dai veri protagonisti dello star system. Poi tutto è finito per quest’uomo violento, con la smania per il sesso, ma sempre con il pensiero verso la sua Maria in terapia intensiva. E ora? Cristian, infine, è un disadattato, cacciato di casa dal padre, che sembra scemo, e per sopravvivere suona per strada, dorme alla stazione. E ora? Ogni voce narrante, in parallelo alle altre, percorre – per buona parte del romanzo – un’esistenza miserabile fatta di espedienti e tentativi inutili di miglioramento. Quando i tre si incontreranno, ogni singolo episodio sarà poi narrato dal proprio punto di vista. I tre personaggi insieme cercheranno di opporsi alla brutalità del mondo e degli uomini, litigando ma anche confortandosi l’un l’altro in vicende sospese tra espedienti di ogni sorta. A ricordarci che la vita è sempre sospesa ad un filo fatto di aspetti ridicoli e feroci, e quando sovviene la disperazione c’è bisogno di solidarietà. Per ravvivare la speranza.
“Qualcuno ha detto che mi sono rappresentato nel personaggio di Eva e nella sua inconcludenza, nel suo essere una scrittrice fallita. È vero, ma è vero anche che c’è parte di me in Frank. Di gente come lui ne ho vista tanta nel mondo del cinema, spacconi, maneschi e bugiardi. Piuttosto sono, come lui, un vecchio rancoroso. Da ragazzo, poi, non ero né dotato né brillante, un po’ come Cristian.” Così in un’intervista il Bruni. Insomma, si può dire che i tre protagonisti sono in qualche modo alter ego dell’autore stesso e i segnali in questo senso vanno oltre le sue dichiarazioni, ma emergono anche in filigrana dai rapporti diretti e indiretti dei personaggi con il paese dove proprio Bruni si era rifugiato durante la sua precarietà lavorativa, Palestrina, mai citato direttamente. Indizi che saltano fuori dai riferimenti al musicista rinascimentale Giovanni Pierluigi nativo di quel paese, oppure a Thomas Mann che nel Dottor Faustus fa incontrare il protagonista con il diavolo proprio a Palestrina, dove nei boschi intorno “il cow boy Gordon Mitchell aveva realizzato il villaggio western in cui avrebbe realizzato i suoi film più belli.” Altro segnale di identificazione è la chiara empatia dell’autore verso i personaggi del suo libro, e in generale per gli sconfitti, come emerge anche dalla comune passione che condivide con Eva verso Fridtjof Nansen, che aveva denunciato ne primo dopoguerra lo sterminio degli armeni, divenendo famoso per il suo impegno verso tutti i profughi del mondo. Questo sembra dirci Bruni, additandoci a modello un uomo come l’esploratore e politico norvegese: la “luce del nord” illumini il nostro cammino. “ Abbiamo ballato avvolti dalla luce, ballato la danza della vittoria, della riconciliazione e del perdono. Sì, del perdono, sì; avremmo perdonato il mondo che ci aveva respinti prima, condannati poi.”
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