Tra le varie tipologie di migranti di cui tanto si discute – e, il più delle volte, non nei modi dovuti – ce n’è una su cui l’attenzione non viene posta con l’attenzione e l’emergenza (vera) che sarebbero indispensabili. È quella del «migrante ambientale» – o, più opportunamente, del «rifugiato ambientale» – spia di quanto il climate change costituisca un (drammatico) dato di fatto. E dovrebbe bastare, in materia – se non ci si fida degli allarmi lanciati a più non posso dai movimenti ecologisti – lo studio della Banca mondiale che indica come il cambiamento climatico in corso di svolgimento nelle tre aree più densamente popolate del pianeta farà partire, per effetto degli eventi meteorologici estremi (dalle alluvioni alla desertificazione), 143 milioni di migranti ambientali entro il 2050. Migrazioni forzate, con il cambiamento climatico che, come denuncia l’Osce, si presenta alla stregua di una delle principali minacce alla sicurezza per gli anni a venire. E dal secondo dopoguerra ai giorni nostri sono ben 111 i conflitti il cui innesco è imputabile totalmente o parzialmente a cause ambientali.
Per fare il punto su questo argomento, tanto cruciale quanto poco discusso dall’opinione pubblica, c’è ora il libro di Francesca Santolini Profughi del clima(Rubbettino, pp. 102, euro 12; postfazione di Giampiero Massolo). L’autrice, giornalista specializzata in ambiente (e collaboratrice de La Stampa e del programma Unomattina di Rai 1), guida il lettore all’interno di una tematica decisiva per il futuro delle società occidentali, ma dai contorni ancora incerti, a cominciare dalla stessa definizione dei migranti ambientali, per la quale si utilizza come strumento di lavoro quella elaborata dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, che li classifica come «quelle persone o gruppi di persone che, a causa di improvvisi o graduali cambiamenti nell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati o scelgono di lasciare le proprie case temporaneamente o permanentemente, muovendosi all’interno del proprio paese od oltrepassando i confini nazionali».
Dalle politiche predatorie responsabili del dissesto ambientale alle reazioni al problema (che partono dai «Psdis, i Pacific Small Island Developing States, le isole e piccole nazioni la cui esistenza stessa è minacciata dal global warming), questo utilissimo volume descrive lo stato delle cose su una problematica troppo sottovalutata insieme agli scenari possibili. E ci rammenta – come fanno ogni venerdì le giovani generazioni dei Fridays for Future capitanate da Greta – che quella sul clima rappresenta la battaglia fondamentale che non possiamo (o, a essere avveduti, non dovremmo) concederci il lusso di perdere. Una battaglia per la vita, per l’appunto.
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