In queste pagine, scritte con un pathos trattenuto e per questo ancora più ricco di echi, c’è proprio la famiglia, il padre Franco Roccella geniale, vulcanico, disordinato, pieno di idee, che visse nel caos delle idee e degli amori; la madre Wanda, affascinante e fragile, smaniosa di autonomia e bisognosa di protezione a cui la figlia Eugenia, con la quale aveva combattuto nel Movimento di Liberazione della donna, e alla quale, lei inchiodata in uno stato di coma interminabile, stringeva forte la mano per trattenerla in vita.
C’è la bambina Eugenia che viene lasciata presso i nonni in un paese della Sicilia dai genitori che restano in continente perché nel continente ci sono più cose da fare e da vivere, e lei piccolina rimane senza fiato ogni volta che la madre la viene a trovare.
E c’è il mondo radicale, l’universo di Pannella, contro cui Franco Roccella, sodale sin dall’inizio, andrà a sfracellarsi in uno scontro micidiale e crudele, non mitigato nemmeno dal ricordo doloroso dell’aiuto fraterno che Franco aveva prestato a Marco nel 1959, quando lo trovò in un alberghetto di Cattolica “nella più classica situazione da tentato suicidio: in un lago di sangue con le vene dei polsi recise”. Un gesto che, gli scriverà Pannella prima della rottura, “era davvero un atto vitale”. Una storia vitale, piena di fratture e di sofferenze, ma vitale. Eugenia Roccella la racconta benissimo: un memoir che vi consiglio.