Munera amicitiae

Studi di storia e cultura sulla Tarda Antichità offerti a Salvatore Pricoco

a cura di Rossana Barcellona e Teresa Sardella

Cartaceo
33,25 35,00

Quando mi fu proposto di scrivere una pagina introduttiva alla raccolta di scritti in onore di Salvatore Pricoco, come mi avviene sempre in questi casi, avrei voluto schermirmi, allontanare da me un impegno che

Quando mi fu proposto di scrivere una pagina introduttiva alla raccolta di scritti in onore di Salvatore Pricoco, come mi avviene sempre in questi casi, avrei voluto schermirmi, allontanare da me un impegno che si traduce inevitabilmente in prese d’atto, in nuovi viaggi verso il passato, in inquietanti avventure della memoria. Ben sapeva il mesto poeta di Recanati che «grato occorre / Nel tempo giovanil, quando ancor lungo / la speme e breve ha la memoria il corso, / Il rimembrar delle passate cose, / Ancor che triste, e che l’affanno duri». Possiamo ritenere che, anche quando «il corso» della memoria non è più «breve», il ricordare sia altrettanto «grato»? Con un altro poeta dello stesso tempo, il delicato Pindemonte, mi limiterò a dire che a un certo momento si vive «di memoria assai più che di speranza». Erano riflessioni di questo tipo che avrei voluto evitare.
Ma non potevo veramente esimermi dal preparare una pagina per Turi. Certo una pagina non formale. Non del Preside, ma del collega, dell’amico. E anche in qualche modo di un antico allievo. Pricoco, e gli altri della sua generazione, vivevano un momento della vita universitaria, e della Facoltà di Lettere di Catania, caratterizzato dalla sensibile restrizione degli spazi per nuovi inserimenti e per le carriere di quelli che inseriti già erano. Per di più, in presenza di una composizione della fascia degli ordinari , gli unici veri responsabili allora, anzi signori, del governo dell’istituzione , caratterizzata dalla sostanziale prevalenza numerica di quelli provenienti da altre università, le nuove leve giovanili locali dei votati alla ricerca e aspiranti alla carriera universitaria erano indotte a guardare come a punti di riferimento a quei professori che si poteva supporre intendessero rimanere a lungo o per sempre a Catania. Il latinista Emanuele Rapisarda era uno di questi. Dotato di grande forza di attrazione, era a sua volta attento ai giovani, particolarmente impegnato a costruire una scuola, disposto a seguire il lavoro scientifico e didattico di quelli che si erano rivolti a lui. Naturalmente, anche le sue possibilità di far progredire gli allievi nell’irta via dei successi e addirittura delle possibilità concorsuali erano soggette alle regole generali, che poco favorivano l’ascesa di studiosi meridionali. La via verso l’insegnamento secondario , non senza severi e inclementi concorsi , diveniva obbligata, e poteva condurre a soluzioni definitive o rivelarsi una fase di passaggio e di attesa.
Turi Pricoco fu allievo tra i più dotati di Emanuele Rapisarda. Nei due anni della preparazione degli esami di Letteratura latina, che divenivano tre o quattro, se si aggiungevano la Letteratura latina cristiana, la Grammatica latina e greca, la Letteratura latina medievale, più volte incrociai quel giovane studioso, soprattutto alle prese con sue traduzioni di classici latini o della latinità cristiana che facevano parte dei programmi. Univa un clima culturale, la convinzione del valore formativo essenziale della conoscenza del mondo classico. Era quella che ho chiamato altrove la poesia delle lingue classiche: credere e insegnare come si possa giungere per forza di studi di lingua, la famigerata grammatica anzitutto, a capire come pensa un uomo, come pensa un popolo e come si configuri l’oggetto del suo pensare proprio in quanto pensa in un certo modo, e da qui a capire come pensano gli uomini in quanto uomini. Le percezioni, le rappresentazioni, la logica nella parola. Erano l’emozione della grammatica, l’entusiastica vittoria su un nodo oscuro di parole, il giungere oltre, la sintonia con l’altro, il testo, l’uomo che ne è autore, la civiltà in cui si inscrive. Che è lo studio non strumentale della parola: l’animarsi della grammatica. Un giovinetto (anche senza il montaliano «ciuffo»), in una campagna lontana nel tempo e nello spazio, aveva dato un nome a ogni olivo secolare, il nome di un verbo irregolare greco, e ne aveva ripetuto i paradigmi all’incontro giornaliero. Non erano più ninfe ad animare la natura, ma ugualmente Giacomo Leopardi , chi come lui ha amato la parola dei classici? , avrebbe riconosciuto una perennità di dialogo. La parola come messaggio perenne, che perennemente dà vita a quello cui si rivolge. Il passato che rivive, il tempo che si ferma, il cammino dell’uomo che si riconosce come memoria e presenza interiore.
Poco si sapeva di Pricoco, riservato e schivo sempre, presto docente nella Scuola secondaria. Tanto che degli interessi dello studioso seppi molto, ma molto tempo più in là. Interessi che scoprii per molti aspetti al confine coi miei. La sua prima attività scientifica è fortemente caratterizzata da un lavoro recensorio, attento e sereno, esercitato su studiosi sia italiani che stranieri di primaria importanza. Il che ne fa un punto fermo delle riviste pubblicate nella Facoltà: «Orpheus» e «Siculorum Gymnasium». Un lavoro mai abbandonato. Via via la sua attenzione si volge ai problemi e alle realtà del monachesimo altomedievale. Rappresentano un caposaldo della storiografia contemporanea i suoi studi sulle origini e gli sviluppi del primo monachesimo europeo, in particolare quello gallico e italiano, e sul processo di regolarizzazione della tradizione occidentale, dominata dai problematici rapporti tra la Regula Magistri e la Regula Benedicti. Per i tipi della Valla pubblica l’edizione de La Regola di San Benedetto insieme ad altri testi monastici medioevali a quest’ultima variamente legati. I suoi studi sulla spiritualità e sulla cultura di area mediterranea e siciliana hanno ispirato alcuni dei più intensi momenti dell’attività di organizzatore di cultura, confluiti in numerosi convegni.
Uno dei suoi autori rimane Eucherio di Lione, e momento centrale di questo decennale dialogo e sodalizio è l’edizione del De contemptu mundi. Ben strani esseri gli storici e i letterati, che quasi sempre cerchiamo lezioni e fraternità presso gli assenti e lontani nello spazio e nel tempo, quelli che non ci possono più sorprendere o deludere per aver percorso tutto il loro cammino. Già Machiavelli diceva di parlare con gli antichi e che loro gli rispondevano. Una forma di autorassicurazione? Una verifica di autenticità, se nel «disprezzo del mondo» si può ritrovare il superamento delle contingenze?
Mi sorprese il suo interesse, chiaramente emerso negli anni culminanti della parabola di studioso, per le tematiche relative alle teorie e alle interpretazioni dei testi ascetici. Quando lessi il suo saggio su Ernesto Buonaiuti, potei rendermi conto sino in fondo dell’assurdità delle separazioni accademiche. Noi costruiamo mondi paralleli, che troppo spesso, purtroppo, non convergono. Un mio punto di partenza per il mio laico interesse al mondo della religiosità cristiana bassomedievale era stato proprio Buonaiuti. Una collaborazione e un confronto avrebbero potuto essere produttivi di ulteriori scoperte e accertamenti. C’era solo da registrare una sintonia e un’occasione perduta.
Ora, caro amico, ti fanno onore «e di ciò fanno bene». Il valore dello studioso è in re. Il riconoscimento del prestigio, della serietà, dell’onestà intellettuale e della correttezza umana va sempre rimarcato, perché può procurare modelli validi in tempi di omologazione e di appiattimento, anche della cultura e del lavoro.

collana: Varia, bic: HB, 2003, pp 580

isbn: 9788849806250