Le ceneri di Craxi
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«Un periodo storico può essere giudicato dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne la grandezza e
«Un periodo storico può essere giudicato dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne la grandezza e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in sé stessa. Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente».
Molto probabilmente, Massimo D’Alema aveva presente questa acuta osservazione di Antonio Gramsci quando dichiarò: «Dobbiamo cominciare a vedere nella vicenda del cattolicesimo democratico e nel partito socialista italiano qualcosa di più che una lunga preparazione di Tangentopoli; altrimenti consegniamo alle nuove generazioni l’immagine di 50 anni della nostra storia come una storia di ladri e di assassini».
Parole sacrosante, quelle di D’Alema, che tutti – soprattutto i disinvolti teorici del ‘doppio Stato’ e i giustizialisti – dovrebbero meditare con attenzione, prima di sentenziare sulla vicenda storica della Repubblica e dei suoi protagonisti. Fra i quali, un ruolo fondamentale è stato svolto dai democristiani e dai socialisti. Un ruolo che non può essere ridotto alla costruzione di Tangentopoli, senza, con ciò stesso, consegnare alle nuove generazioni una immagine al tempo stesso falsa e deprimente del percorso compiuto dall’Italia repubblicana. Quale storico, per fare solo un esempio, oggi sarebbe disposto a presentare il periodo giolittiano come tutto ed esclusivamente caratterizzato dalla corruzione? Eppure la celebre definizione di Giovanni Giolitti coniata da Gaetano Salvemini – “il Ministro Introduzione della malavita” – non era certo una pura invenzione polemica. Al contrario: Giolitti quella definizione se l’era ampiamente meritata. E ciò non di meno, i primi 15 anni del secolo scorso sono stati un periodo storico contrassegnato da grandi progressi in tutti i campi.
Si dirà: bisognerà attendere almeno 50 anni per formulare un apprezzamento oggettivo su quella che molti abusivamente chiamano ‘la Prima Repubblica’. Troppe e troppo intense sono, ancora oggi, le passioni etico-politiche che animano la scena perché sia possibile formulare giudizi sereni ed equi. Non di questo avviso è Edoardo Crisafulli. Il quale, a 15 anni dal terremoto politico-istituzionale prodotto dalle inchieste sulla corruzione dei partiti condotte dal pool di magistrati di Mani Pulite, ha scritto un libro tanto ambizioso quanto coraggioso il cui obiettivo è documentare in maniera puntigliosa quale è stato il ruolo effettivo svolto da Bettino Craxi nella storia del nostro Paese.
Un ruolo di fondamentale importanza – questa la sua tesi di fondo – poiché quando Craxi fu eletto segretario del psi la democrazia italiana stava attraversando una preoccupante crisi morale. Erano gli ‘anni di piombo’, succeduti alla contestazione studentesca; gli anni durante i quali, mentre le Brigate Rosse, in nome della rivoluzione marx-leninista, lanciavano i loro attacchi terroristici contro il sistema, autorevoli ‘progressisti’ firmavano manifesti nei quali dichiaravano che la Repubblica non meritava di essere difesa. Ed erano anche gli anni in cui il segretario del pci Enrico Berlinguer non perdeva occasione per esaltare la “ricca lezione leniniana”; per affermare, con stupefacente candore, che nei Paesi comunisti era “universalmente riconosciuto che esisteva un clima morale superiore, mentre le società capitalistiche erano sempre più colpite da una decadenza di idealità e di valori etici e da processi sempre più ampi di corruzione e disgregazione”; per ribadire che era cosa di evidenza solare che “nel mondo capitalistico c’era crisi, nel mondo socialista no”; infine, per denunciare l’“opportunismo” della social-democrazia europea, colpevole di aver rinunciato alla meta finale: la fuoriuscita dal sistema occidentale e la costruzione di un ordine nuovo basato sul piano unico di produzione e di distribuzione.
È stato detto più volte che il conflitto fra Craxi e Berlinguer, che dominò la scena italiana dal 1976 al 1984, era un conflitto di personalità: aggressiva e spregiudicata quella del segretario socialista, tutta pervasa da un moralismo quasi ascetico quella del segretario comunista. In realtà, il conflitto era, fondamentalmente, di natura politico-ideologica. Berlinguer era un ‘uomo di fede’, tutto immerso nella teologia marx-leninista; il che gli impediva di percepire la realtà così come essa era. Talché egli proponeva come modello – sia pure con qualche integrazione e correzione – quel tipo di società – il sistema sovietico – che stava sprofondando nel nulla storico a motivo delle sue insanabili contraddizioni.
Radicalmente altra – come Crisafulli documenta con ammirevole acribia – la concezione del socialismo di Craxi: essa si richiamava esplicitamente alla tradizione riformista – dunque all’insegnamento di Turati e di Matteotti – e vedeva nella socialdemocrazia europea il modello da tenere costantemente presente. E, coerentemente a questa visione, rivendicava, a petto del pci, la piena e totale autonomia del psi nello stesso momento in cui denunciava la natura intrinsecamente e irrimediabilmente totalitaria del comunismo. Peraltro, la linea politica assunta da Craxi era perfettamente in linea con i grandi dibattiti che – a partire dal 1975, l’anno in cui fu pubblicato il saggio di Norberto Bobbio sulla (inesistente) teoria marxista dello Stato – si svolsero sulle colonne di «Mondoperaio». Da essi era emersa impietosamente la ‘miseria’ dell’ideologia comunista. Ma il pci di Berlinguer, invece di assecondare il revisionismo socialista, si chiuse a riccio. E così fu sprecata una occasione storica: quella di costruire un grande partito social-democratico recuperando la tradizione riformista, l’unica capace di dare alla sinistra una cultura di governo in armonia con i valori fondamentali della civiltà occidentale. E ciò accadde perché il pci non ruppe quello che Togliatti chiamava il ‘legame di ferro’ con l’Unione Sovietica. È vero che Berlinguer alzò il vessillo della così detta Terza Via, ma essa rimase una scatola vuota. Né avrebbe potuto essere diversamente, poiché davanti alla sinistra c’era una scelta secca: o il socialismo liberale o il socialismo totalitario. Rifiutandosi pervicacemente di compiere tale scelta, il pci si condannò all’opposizione permanente e alla altrettanto permanente sterilità politica e culturale.
Questi i fatti storici che vanno tenuti costantemente presenti quando si esamina il ruolo che il psi ha avuto nella storia della Repubblica. Fatti che l’ondata giustizialista – cavalcata dai post-comunisti con il preciso obiettivo di annientare il psi per prenderne il posto – ha cancellato, ma che opportunamente Crisafulli riporta puntigliosamente alla memoria non solo perché la deontologia dei cultori di Clio lo esige, ma anche – anzi: soprattutto – perché in essi è racchiusa una lezione di fondamentale importanza; e cioè che la sinistra italiana, se non vuole rimanere una permanente anomalia, deve imboccare la via indicata da Craxi: la via del socialismo liberale.