Abbondanza e inutilità dei programmi economici in Italia
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In questo nuovo lavoro l’Autore ripercorre parte della storia dei programmi economici che si sono susseguiti in Italia dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nati sulla scia dell’inversione di impostazione politica impressa all’intervento
In questo nuovo lavoro l’Autore ripercorre parte della storia dei programmi economici che si sono susseguiti in Italia dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nati sulla scia dell’inversione di impostazione politica impressa all’intervento dello Stato nell’economia sia nel blocco occidentale, nelle forme liberiste e decentralizzate, sia in quello sovietico, nelle forme totalitarie e centralizzate. Egli ripercorre la storia dello scivolamento nell’inutilità dell’abbondanza di questi programmi, soffermandosi sulle personali esperienze, che considera parte di una storia più ampia, ancora tutta da scrivere.
L’Italia aveva ereditato dal ventennio fascista un grosso nucleo di grandi imprese pubbliche e, nonostante avesse fatto la scelta di campo occidentale, non riuscì mai a conciliare l’intervento pubblico con le regole del mercato aperto. La nostra cultura sociale non ha mai gradito la libera competizione e ha coltivato invece l’assistenza pubblica; di conseguenza il settore esposto alla concorrenza è sempre rimasto di dimensione inferiore al settore non esposto, creando una condizione che si è riflessa in una produttività media più bassa del resto del mondo più avanzato. Il vincolo esterno è stato il correttivo scelto dai gruppi dirigenti del Paese per calmierarne gli effetti, senza però risolvere le cause.
Il 1992, anno di firma del Trattato di Maastricht e dell’avvio dell’inchiesta della Magistratura nota come «Mani pulite», marca il punto di svolta del regime economico e politico del Paese che, incontrandosi con diversi shock geopolitici (globalizzazione, cessione della sovranità monetaria all’eurosistema e crisi finanziaria internazionale), ha invertito crescita reale e benessere sociale, con conseguenze politiche sotto i nostri occhi. Conclude definendo gli strumenti per raggiungere gli obiettivi che il Paese intende perseguire, chiedendo all’Unione Europea di collaborare per riacquisire il consenso perduto e proponendo di avviare una riforma del bilancio pubblico che stabilisca i limiti delle garanzie sociali offerte e liberi risorse per creare opportunità di reddito e di lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia. Avverte però che, senza la creazione di una Scuola europea di ogni ordine e grado non si riavvierà l’indispensabile processo di unificazione politica per riportare l’Europa al rango geopolitico che a essa spetta.
Rassegna
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Il libro nero dell’interventismo statale: occhio ai pifferai della spesa pubblica
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