Paolo Greco
Nel suo libro “Dall’esilio all’esodo”, Paolo Greco, dottorando in Teologia dogmatica, giornalista pubblicista e collaboratore di diverse riviste di spiritualità, avanza un pregevole tentativo di insinuarsi fra le pieghe di un ripensamento fecondo della fede, nel vivo di una riflessione teologica sperimentale, godendo del prestito delle idee di autori noti e apprezzati e intessendo una fitta rete di rimandi e suggestioni che, spaziando a partire dalla tematizzazione del nesso fede-ragione e arrivando fino alle recenti encicliche pontificie, ben si compongono nonostante la difficoltà inevitabile di un discorso di tale portata. Nel contesto del mondo che cambia si rende continuamente necessario compiere lo sforzo da un lato di cercare di rispondere alle numerose istanze che la cultura avanza, dall’altro di rielaborare certe categorie ermeneutiche in ascolto e in dialogo con la nuova temperie culturale (auditus temporis). Il lavoro che qui viene proposto intende organizzare il discorso su Dio in quell’esercizio faticoso e affascinante di esposizione ragionevole e in modo scientificamente valido del proprium cristiano con particolare attenzione al tempo della postmodernità che ha i tratti ben visibili di una società che si è allontanata dai suoi punti di riferimento valoriali agganciati ad una visione cristiana della vita, della storia e del mondo. Nella particolare situazione epocale in cui viviamo l’autore ripropone le categorie bibliche dell’esodo e dell’esilio, due parole che occupano un posto di rilievo nella storia della salvezza, ma anche gli estremi di un’oscillazione entro il cui spazio si colloca nella sua drammaticità e bellezza tutta l’esperienza umana. In quanto uomini e credenti l’esistenza si trova sempre in bilico fra l’esilio e l’esodo, ovvero fra lo smarrimento, la desolazione, la sconfitta, da un lato, e dall’altro il cammino verso la meta agognata, il compimento dei desideri, la patria. Secondo la logica e nel rispetto della storia del popolo eletto sarebbe più giusto parlare prima di esodo e poi di esilio per stigmatizzare col primo la faticosa ricerca d’identità e col secondo il rischio sempre incombente del suo smarrimento. Idealmente però i termini si possono anche invertire o addirittura sovrapporre. L’esilio allora indica la situazione di itineranza, di estraneità, di rischio, di spersonalizzazione, cose tutte che divengono causa di sofferenza, mentre l’esodo ne diviene una possibile rielaborazione, una trasformazione intrinseca, una certa qual soluzione. Trasformando l’esilio in esodo, rimane pur sempre presente la strada, non cambiano le difficoltà, ma si invertono i termini. L’esilio è avvertito come nostalgia nella quale ciò che conta sta alle spalle. L’esodo è provvisorietà, ma viene affrontato con gli occhi rivolti in avanti, sorretti dalla speranza che salva. In comune le due realtà hanno il senso della frammentarietà, percepiscono il rischio e condividono l’emergenza che l’imprevisto dell’itineranza quasi sempre porta con sé.
Lo sviluppo del testo si articola in tre capitoli. Il primo delinea lo scarto che la fede ha subito nella postmodernità: si descrive lo stato in cui la fede è venuta a trovarsi nell’odierna società e si prova a rintracciare gli spazi culturali che offrono una nuova possibilità alla fede per uscire dallo stato di “sereno” esilio. In un dialogo franco e sincero con la postmodernità si prova a tracciare il sentiero per un nuovo esodo attraverso il quale la fede ritrovi la terra dove dimorare. In questo primo punto si indaga il cambiamento avvenuto del paradigma epistemologico che ha condotto al nuovo paradigma antropologico declinatosi nelle problematiche del rapporto tra fede e ragione.
Il secondo capitolo affronta alcuni aspetti particolari della teologia della fede che si è venuta a sviluppare alla luce del nuovo contesto culturale. In questa prospettiva si evidenzia il grande contributo apportato dal Concilio Vaticano II alla riflessione teologica sulla fede, nell’accogliere le istanze provenienti dal “personalismo”, e la scelta di un paradigma dialogico-personalistico di fede, progressivamente incamminandosi verso il superamento di una concezione di fede ispirata al modello teoretico-istruttivo. Da ciò si rilevano le questioni teologiche raggruppate nelle variazioni dei modelli di fede che si vengono a proporre e soprattutto si compie una lettura attenta del contributo della Lumen fidei che in continuità con il Vaticano II argomenta e propone un’idea di pensare la fede che evocativamente definiamo “fede differente” rispetto a un’idea di “fede certezza” che si è venuta a proporre nella modernità.
Nel terzo capitolo si designa in modo essenziale la proposta di “fede differente” nella prospettiva di una fede “esodale” che trova in Abramo un interprete credibile di fede valida, moderna, genuina e gradita nell’epoca della post-cristianità. Una fede a contatto con il mistero che si nutre della rivelazione e si traduce in una spiritualità “viandante” dai tratti autentici della testimonianza esplicata in una spiritualità che prende “corpo” nella concretezza della vita quotidiana. Tale prospettiva è affrontata tenendo presente il nuovo documento pontificio Evangelii gaudium.